Sofia Coppola per la prima volta in Italia

La prima volta di Sofia Coppola

La pagina pubblicata dal Quotidiano della Basilicata di domenica 20 aprile sulla visita della figlia di Francis Ford Coppola nel paese di origine del regista di “Apocalypse now” (clicca sul link sopra per visualizzare il pdf)

Gas, l’arma di Putin gela l’Italia

di Gennaro De Stefano e Antonio Murzio

http://www.gennarodestefano.it/art0236.asp

Per il delitto di Cogne l’atto finale

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di Gennaro De Stefano e Antonio Murzio

(anche su: http://www.gennarodestefano.it)

La Cina è vicina? No, è arrivata (GENTE, 21/2006)

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Visualizza le pagine del settimanale Gente con l’inchiesta cofirmata con Gennaro De Stefano (cliccando si aprirà il pdf)

Il mostro continua a far paura (GENTE, n. 31/2005)

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di Gennaro De Stefano e Antonio Murzio

Gianfranco Stevanin, 45 anni, il serial killer di Terrazzo, in provincia di Verona, condannato all’ergastolo per aver ucciso tra il 1993 e il 1994, cinque giovani donne, ha maturato le condizioni per tornare in libertà con un permesso premio. Questo non vuole dire però, come spiega il criminologo Massimo Picozzi a pagina 46, che l’assassino potrebbe davvero lasciare il carcere. È da ritenere praticamente impossibile che le commissioni di esperti psicologi, incaricate di valutare eventuali richieste di permessi, diano il loro assenso. Anche se nessuno dimentica (ecco la raagione dell’inquietudine) che altri assassini seriali come Angelo Izzo, uno dei boia del Circeo hanno potuto godere di questi benefici e ne hanno approfittato per compiere altri orrendi crimini. La notizia che Stevanin a norma di legge potrebbe uscire in permesso premio, giunge insieme alle affermazioni del tenente colonnello dei carabinieri Gianpiero Paparelli, che si occupò a suo tempo delle indagini, e che a Gente, rivela: «Mi resta il cruccio di non aver potuto continuare a scavare nei terreni di proprietà degli Stevanin. Sono convinto che altri cadaveri di persone scomparse e mai più ritrovate, verrebbero fuori. Noi, all’epoca, abbiamo delineato tutta una serie di omicidi. Pur non avendo elementi, ci convincemmo che, probabilmente, Stevanin aveva ucciso nove vittime. Durante l’indagine trovammo anche tracce di persone uccise, di cui nessuno ha denunciato la scomparsa. Se avessi potuto, avrei scavato per tirar fuori, oltre a qualche fotografia, anche qualche corpo per potergli dare, come si dice, cristiana sepoltura». Ma perché non si scavò? «Perché», risponde Paparelli, «all’epoca si disse: “Dobbiamo andare al processo subito, con le prove che abbiamo, per scongiurare la scadenza dei termini di custodia cautelare. Poteva essere controproducente chiedere una proroga, con tutto quello che avevamo in mano. Chiamiamola pure fretta. Perché non si sia più andato avanti», prosegue l’ufficiale, «non lo so, forse dovreste chiederlo alla dottoressa Omboni che conduceva l’indagine. Il magistrato, prima del rinvio a giudizio, ritenne che, dal punto di vista processuale, non era opportuno allungare i tempi». Una dichiarazione scioccante quella del tenente colonnello. Maria Grazia Omboni, oggi alla Procura Generale di Brescia, spiega a Gente: «Quella di poter trovare altri corpi sepolti nel terreno di Stevanin era una ipotesi e si fece tutto quello che si poteva fare, ma non fu trovato nulla. Le ricerche furono molto estese, molto approfondite ma le ipotesi non trovarono conferma nelle indagini». L’avvocato vicentino Cesare Dal Maso, difensore del serial killer, si stupisce per il fatto che Gente sia a conoscenza della notizia del possibile permesso premio e preferisce ridimensionarla. Un criminale ve emettere al momento della richiesta avanzata dal detenuto». Dalla vicenda di cui Stevanin si rese protagonista (le vittime, tutte donne, furono trovate mutilate e di due non si è mai riusciti a risalire alla identità), vengono fuori ulteriori squarci di verità assolutamente inediti: almeno due delle vittime avrebbero potuto salvarsi. Alessandra Giulietti non aveva più notizie della figlia di 29 anni, Claudia Pulejo, dal 15 gennaio 1994. L’ultima volta che si erano viste, lei le aveva detto di avere un appuntamento proprio con Stevanin, che entrambi conoscevano, per scattare foto. A fine gennaio, quando la signora si presentò in caserma per denunciarne la scomparsa, le sue parole non destarono allarme. Claudia era tossicodipendente e bastò per stabilire che non c’era da preoccuparsi,che «sarebbe tornata». A nulla valsero le insistenze della Giulietti sul fatto che la figlia, che si bruciava l’esistenza con l’eroina, non aveva mai smesso di andarla a trovare ogni due giordi quella fattura, premiato per buona condotta, scatenerebbe immediatamente le reazioni negative dell’opinione pubblica. L’avvocato ne è consapevole e dice: «Questo non è il momento opportuno per chiedere permessi premio, anche se al mio cliente è già stata concessa la liberazione anticipata prevista dalla legge». La “liberazione anticipata” è l’istituto giuridico che porta alla maturazione di 45 giorni di permesso per ogni semestre trascorso da internato; Stevanin è in carcere da 11 anni e otto mesi,ossia da 23 semestri. Pertanto, ha tutte le carte in regola per accedere a questo istituto premiale. «Gli altri presupposti per beneficiarne», spiega infatti Dal Maso, «sono che si riconosca un ravvedimento compiutamente provato e che non si sia organici alla criminalità organizzata. Questi requisiti sono in possesso di Stevanin. Vi è infine la valutazione sulla pericolosità sociale ,che il Tribunale competente [quello dell’Aquila. ndr], depo di Claudia fu disseppellito in novembre, mezzo metro sotto terra nel giardino della casa di Stevanin, “impacchettato” in strati di pellicola da cucina, in avanzato stato di decomposizione. Fausta Mannarino, giornalista che oggi dirige la redazione di Forlì del quotidiano La voce di Romagna, all’epoca dei fatti era cronista a La cronaca di Verona e collaborava con la trasmissione della Rai Chi l’ha visto,proprio sui casi delle ragazze scomparse nel Veronese. Il giorno del rinvenimento del corpo di Claudia, ricevette una telefonata: «Hanno ritrovato uccisa una certa Pulejo: non è la ragazza di cui la madre aveva denunciato la scomparsa?», disse la voce all’altro capo del filo. «Era una domenica ed ero di turno», racconta Fausta. «La prima cosa che pensai fu di andare a Terrazzo. Parlando con le persone del luogo, mi dissero che gli Stevanin avevano un casolare di campagna. Decisi di andare a dare un’occhiata. Ero con la fotografa del giornale. Arrivati alla cascina, trovammo la porta aperta e decidemmo di dare un’occhiata in giro. Dentro non notammo nulla di strano, tranne alcune cassette per la frutta riposte sotto un tavolo e ricolme di riviste pornografiche. Conoscendo la storia per cui Stevanin era nel frattempo finito in carcere (le sevizie alla prostituta austriaca Gabriella Mugser, salvatasi con uno stratagemma), pensai di aver fatto cilecca. Mentre stavamo per uscire, rivolsi ancora l’attenzione a quelle cassette. Diedi un calcio per spostare le riviste e vennero fuori le schede su cui Stevanin annotava le caratteristiche delle modelle che avrebbero posato per servizi fotografici porno da vendere a una fantomatica Tower Production di Milano. «Le raccolsi, erano una quarantina, e mi precipitai al giornale. Nel tragitto, chiesi a una persona che era in auto con noi, di leggermi solo le intestazioni. Quando sentii pronunciare il nome di Claudia Pulejo il sangue mi si gelò». Arrivata al giornale Fausta consegnò il materiale nelle mani del direttore. “Sei pazza!”, disse. Ma il giornale uscì con il contenuto di quelle schede. Per Stevanin, furono coniate le definizioni più svariate: il “mostro di Milwaukee della Bassa Padana” come l’americano che conservava le sue vittime in frigo e aveva pure lui la faccia d’angelo. Ma anche il “Landru di Terrazzo”, come Henri Landru il francese, che 100 anni fa, bruciò nella stufa dieci signorine.

Che strano, qui i ragazzi si arrendono alla vita (OGGI)

di Antonio Murzio
Taurisano (Lecce), gennaio – E’ il killer invisibile che ogni anno uccide in Europa 58mila persone, settemila in più di quelle che perdono la vita in incidenti stradali. E’ il suicidio, quella imponderabile forza che arma la propria mano contro se stessi, la prima causa di morte nei paesi dell’Unione.
I risultati di una ricerca, pubblicati nel 2004 ma presentati ad inizio gennaio, parlano per l’Italia di 15 casi di suicidio ogni 100.000 persone. Ma c’è un paese che ha sconvolto ogni statistica. A Taurisano, centro del capo di Leuca, tredicimila abitanti, in meno di due anni, nove persone si tolsero la vita. Sette erano giovani.
Marcella B. decise di morire nel pomeriggio di un giorno di luglio del 2002. Serrò le porte al mondo nella palestra che aveva aperto dopo essere tornata al suo paese con un diploma dell’Isef in tasca. Adagiò su un tappetino il suo cellulare. Accanto vi posò la sua borsa. Con cura assicurò una corda alla catena che dalla trave reggeva i sacchi di allenamento. Pochi secondi dopo fu il buio. Solo leggendo il suo biglietto di addio gli altri si accorsero che, nonostante i suoi ventotto anni, Marcella aveva cominciato a morire molto tempo prima. «Non cercate la causa di questo mio folle gesto… c’è qualcosa che non va… ti senti sola, inutile, depressa, senti dentro di te il mal di vivere», scrisse prima di andarsene. Il giorno dopo tutti a Taurisano cominciarono a domandarsi il perché. A cercare una ragione all’impressionante sequenza di suicidi giovanili che stava colpendo il centro del Basso Salento. Marcella fu l’unica donna, e la più grande di tutti, di sette giovani taurisanesi che si arresero alla vita nel volgere di pochi anni. Cinque si erano consegnati alla morte come lei, un ragazzo diciassettenne si era rifugiato sul terrazzo di casa con il fucile del padre. Poi aveva premuto il grilletto. Tra dicembre 2001, quando si verificò il sesto caso, e luglio 2002, in paese anche due anziani decisero di togliersi la vita. Cosa stava accadendo a Taurisano? «Qualcuno cominciò a mettere in giro voci di sette sataniche e messe nere», racconta il vicequestore Domenico Bono, dirigente del locale commissariato, «ma non abbiamo mai trovato riscontri e tutti i casi sono stati archiviati come suicidi». Per capire, un parroco pensò di invitare anche «il prete della televisione». Don Antonio Mazzi venne, partecipò a un incontro organizzato nella parrocchia di Maria Ausiliatrice e parlò di disagio giovanile. Poi sui fatti scese il silenzio, a contrastare la vergogna del marchio.
«Venga pure in Comune, ma di quella storia non parlo», ci dice oggi al telefono Luigi Guidano, insegnante elementare e sindaco di Taurisano. Vorremmo cercare di capire quello che è successo. Il timore è che ogni anello della catena di suicidi possa unirsi a quello successivo per lo spirito di emulazione che spingeva i ragazzi a compiere il gesto di non ritorno. E la paura che un giorno il paese possa essere scosso ancora dalla notizia induce all’oblio. «Le confesso una cosa», dice ancora il vicequestore Bono, «l’ultima volta che è arrivata la notizia del ritrovamento di un cadavere ho quasi tirato un respiro di sollievo quando ho saputo che si trattava di un omicidio». Taurisano è terra di criminalità organizzata, roccaforte della quarta mafia, quella pugliese, la Sacra Corona Unita. Il caso ha voluto che il capo di uno dei clan locali più pericolosi portasse lo stesso cognome del patron dell’unica industria del paese. Un ex emigrante che, dopo aver venduto wurstel su un carretto per le città tedesche, è tornato nella sua terra, convinto che fosse arrivato il momento di fare il grande salto. Oggi la sua azienda dà lavoro a un centinaio di persone in un paese di tredicimila abitanti dove non esiste neppure un cinema. Cosa avevano in comune quei sette ragazzi? Adesso cominciano a chiederselo anche nelle tesi di laurea. Una prima risposta arriva da quella sul sociologo francese Durkheim e sui suoi studi sul suicidio. Dolores Ancora è la ragazza che l’ha realizzata. E la risposta è disarmante: Romeo, Rossano, Rosario, Giuseppe, Matteo, Ottavio e Marcella in comune hanno avuto solo l’epilogo della loro esperienza umana. Tranne due, neppure si conoscevano tra loro. Non frequentavano gli stessi ambienti, i loro destini non si erano mai incrociati. Tutti hanno lasciato poche righe, scritte nell’ultimo, disperato tentativo di giustificare al mondo la scelta triste del non ritorno.
«Per due di loro la causa fu una delusione d’amore», ricorda il vicequestore. «Su Marcella le voci che si diffusero in paese furono invece quelle di una diversità impossibile da vivere», spiega Luigi Montonato, professore di italiano e storia, che da ventitre anni dirige e cura Presenza taurisanese, l’unico giornale locale. Montonato, nel dicembre 2001, all’indomani del sesto caso, cercò, con molto coraggio, di fornire una sua interpretazione: «In questi ultimi venti anni Taurisano è stata al primo posto in provincia per tossicodipendenze; ai primi posti per morti violente; al primo posto per devianze minorili», scrisse. «Oggi si ritrova al primo posto per suicidi… Taurisano si connota da sempre per la violenza: è un paese violento. Quel che sta cambiando – e i tanti suicidi lo dimostrano – è il destinatario di quella violenza; è che questa violenza non è più esercitata solo verso l’esterno, ma anche all’interno, contro se stessi. Il suicidio si iscrive in una cultura di violenza, è l’atto di chi, incapace di sfogare l’istinto violento sugli altri, lo ritorce su se stesso». Seduto nel suo studio, ora il professore ricorda un episodio: «Venne a trovarmi una ragazza che conoscevo solo di vista e mi chiese di accompagnarla per scrivere un articolo e fare delle foto. Non mi disse però né di cosa volesse scrivere né quali foto io avrei dovuto scattare. Quando provai a chiederglielo, quasi scappò via. Non è mai più tornata e io ancora oggi continuo a chiedermi: cosa voleva dirmi quella ragazza? Dove voleva portarmi? Cosa avrebbe voluto mostrarmi?». Lui pensa che quella ragazza volesse mostrargli dei luoghi che in qualche modo avessero a che fare con la storia dei suicidi.
Anche Montonato non si arrende all’idea che non esista un filo conduttore delle morti per suicidio e, citando la regina del giallo Agata Christie, afferma: «Un indizio è un indizio, due indizi sono due indizi, tre indizi cominciano a essere una prova». Qualcuno ha parlato del ritrovamento, in una cava abbandonata poco fuori del paese, di una lista con i loro nomi e con il macabro annuncio della settima vittima, «che sarebbe stata una donna». Una lista che sarebbe stata rinvenuta proprio dal vicequestore e da un ispettore del commissariato di Taurisano. Ma Bono nega con forza: «È solo frutto della fantasia». Nella realtà restano sette croci sulle tombe di sette ragazzi. Non avevano mai letto Goethe e I dolori del giovane Werther, non conoscevano Foscolo e Le ultime lettere di Jacopo Ortis. Involontariamente sono entrati nella letteratura. Inconsapevoli attori della messa in scena, tragicamente reale, di Suicidi dovuti, un romanzo di Aldo Busi del 1996, ambientato in un piccolo paese della Lombardia. Sul risvolto di copertina, l’editore Frassinelli scrisse: «Come nel romanzo di Flaubert (Madame Bovary) si è portati a sospettare che “l’assassino era proprio il più insospettabile di tutti: il paesino in cui è ambientato quel giallo mozzafiato lì”».

Storia di Mimmo, che sogna Buffon (VISTO, dicembre 2004)

di Antonio Murzio

Lizzano (Taranto) – Le lucine colorate corrono ad intermittenza sull’albero di Natale nel soggiorno di casa Zecca. Il loro spegnersi e subito riaccendersi sembra quasi la rappresentazione dello stato d’animo di Mimmo, sedici anni, e dei suoi genitori: al buio della notte, al rumore di lamiere, allo strazio di un braccio staccatosi di netto nell’incidente tra due treni la notte del 2 dicembre, ecco seguire finalmente un po’ di serenità e buonumore.
Complice forse una misteriosa Valentina, ventiquattrenne ex modella torinese, vittima anche lei di un incidente in cui ha perduto un braccio, che ha scritto una lettera allo sfortunato adolescente: “Fatti coraggio, la vita continua”, accompagnandola con una foto in cui è ritratta sorridente con la protesi impiantatale a Budrio, vicino Bologna.
“Non le ho ancora risposto – dice Mimmo – mentre armeggia vicino allo stereo per ascoltare la musica di Vasco Rossi, uno dei suoi idoli, “conto di inviarle una e-mail”.
Sotto l’albero di Natale, però, Mimmo vorrebbe trovare un regalo particolare e affida a Visto la missione di consegnare il messaggio. Destinatario Gianluigi Buffon, il portierone della Juventus.
“Il mio sogno sarebbe quello di conoscerlo – confida il ragazzo, mentre ci conduce nella sua cameretta che ha davvero poco da invidiare ad uno Juve club.
“Per ora – continua a parlare accendendo il computer – mi accontento di questo”. E mostra sullo schermo un autografo del numero uno juventino, scaricato da internet insieme ad un centinaio di foto di altri calciatori della Vecchia Signora, prelevate da vari siti del tifo bianconero.
“Juventus e informatica sono state sempre le sue due passioni”, interviene il padre Giovanni, 45 anni, operaio edile a Bologna.
Su quel treno Mimmo c’era salito proprio diretto nel capoluogo emiliano insieme alla mamma Annunziata, bracciante agricola, e alla fidanzata di suo fratello Pasquale.
Il 3 dicembre per la famiglia Zecca avrebbe dovuto essere un giorno di gran festa: il giuramento di Pasquale, militare volontario nell’esercito, l’anniversario di matrimonio dei due genitori (il ventunesimo), il festeggiamento dei sedici anni di Mimmo, compiuti solo qualche giorno prima.
Il destino, però, si è messo di traverso, aiutato dalla negligenza umana (l’inchiesta in corso ha appurato che alla guida del convoglio merci piombato addosso all’Espresso 910 Reggio Calabria – Torino c’era un aspirante macchinista) e dalla vergogna di un binario che da decenni corre solitario, nonostante le proteste, a collegare la punta d’Italia alle regioni adriatiche. E così Mimmo, nel giorno che avrebbe dovuto essere di gioia, si è ritrovato col dolore, non solo fisico, di una amputazione, in una sala operatoria dell’ospedale “Santissima Annunziata” di Taranto. Dove i medici non hanno potuto riattaccare il braccio maciullato, recuperato nel buio nei momenti concitati dei primi soccorsi, proprio dalla mamma. Lei l’ha visto volare fuori dal finestrino, lei lo ha riconosciuto grazie al colore del maglione che il ragazzo indossava, lei lo ha indicato ad un soccorritore che ha prelevato l’arto distaccatosi. Gridando con quanta più voce aveva in corpo, nonostante le contusioni alla testa e al collo che l’incidente le avevano provocato.
“La vita continua” – sorride amaro Giovanni Zecca – che per lavorare ha dovuto trasferirsi da quattro anni a Bologna e ogni settimana torna in treno nel suo paese -, “per ora Mimmo non sta andando a scuola, l’anno prossimo si vedrà”.
Il ragazzo frequenta il terzo anno di un istituto tecnico ad indirizzo informatico in un paese vicino Lizzano. Dal letto d’ospedale aveva detto di voler abbandonare la scuola. Perdere il braccio sinistro, per lui che è nato mancino, gli era sembrata l’ulteriore beffa di un destino cinico.
“Tornare a casa, ritrovare le sue cose, lo ha certamente aiutato – dice la signora Zecca.
Mimmo, dal canto suo, insiste. Vuole essere certo della promessa: “Davvero proverete a farmi avere l’autografo del mitico Buffon?”.
A sedici anni un incidente può anche privarti di un braccio. Certo,  non del diritto di vivere e sognare.

Morire di fame a sedici mesi (VISTO, gennaio 2005)

di Antonio Murzio
BARI, gennaio 2005 – L’unica foto esistente di Eleonora, sedici mesi appena, morta di fame e stenti a Bari nel 2005, è sul display del telefono cellulare di un ragazzo che opera in una associazione di volontariato, e risale a qualche mese fa.
L’unica immagine che rimarrà di Eleonora è invece impressa, e lo sarà per sempre – nella mente di chi ha cercato di prestare i primi soccorsi, come Pasquale Fittipaldi, infermiere e vicino di casa, che inutilmente ha tentato di rianimarla. L’immagine è quella un corpicino pelle e ossa, di cinque chili appena, poco più del peso di un neonato e metà di quello di un qualsiasi bambino di un anno e mezzo, al quale da almeno due mesi nessuno si preoccupava di dare da mangiare né da bere. “Una immagine che nella mia vita pensavo avrei visto solo nei documentari sul campo di concentramento di Auschwitz”, ha detto il pm Emanuele De Maria, che ha disposto l’arresto per la madre della bambina e il suo convivente.
Nel cubicolo di cemento delle case popolari di Enziteto, quartiere a nord di Bari, Francesca Scannicchio, 23 anni, e Armando Morisco, 43 anni, due vite allo sbando tra droga, prostituzione, qualche rapina e alcuni anni in carcere, avevano occupato abusivamente dei locali a pianterreno. In quelle stanze, dove l’unico segno della presenza di bambini è un fasciatoio all’ingresso e un pezzo di triciclo in plastica, su due materassi sfondati e luridi, senza lenzuola e senza coperte, dormivano sei persone. Due adulti e quattro bambini. “Il sacrificio di Eleonora – commenta una signora – almeno è servito a salvare altre vite”.
Il fratellino e la sorellina maggiore della piccola hanno sul collo e sul viso segni di graffi. Insieme all’altra sorellina, di quattro mesi appena, prima di essere avviati verso una comunità protetta, sono rimasti un giorno sotto osservazione presso lo stesso ospedale dove la corsa disperata dell’ambulanza che trasportava Eleonora si era conclusa a sirene spente. Fisicamente stanno bene, alla psicologa che li ha assistiti, i più grandicelli, di quattro e due anni, hanno detto che “è più bello stare con la dottoressa che con la mamma”. Tutti sono arrivati senza vestiti, “il maschietto – racconta l’ispettore di polizia che comandava la pattuglia intervenuta sul posto quel venerdì “aveva la gomma delle scarpe attaccata ai piedi, perché non aveva calze”.
Perché, se gli altri bambini ricevevano regolarmente da mangiare, Eleonora è stata lasciata morire di fame e sete, e sul suo corpo il medico che ha eseguito l’autopsia ha trovato tracce di vecchie fratture al braccio mai curate?
La spiegazione, se può esistere una spiegazione a quello che è accaduto, è in una sorta di selezione praticata dai due mostri di Enziteto: “Tra i quattro bambini, Eleonora era l’unica a non avere un padre certo. Era il frutto di un rapporto occasionale della madre con un cliente in un periodo in cui si prostituiva a Bologna. E anche se legalmente riconosciuta dal padre dei primi due bambini ed ex marito della donna, forse nella mente contorta dei due conviventi la piccola non poteva accampare gli stessi diritti degli altri. Soprattutto dellultima bambina, quella di quattro mesi, unica figlia della coppia ora in carcere”, dice Leopoldo Testa, funzionario della Squadra Mobile.
Ma Eleonora, nei pochi mesi del suo passaggio sulla terra, non ha goduto di nessun diritto. Le spettava quello di vivere. Non glielo hanno concesso la mamma e il suo uomo, che uscendo per andare a fare il parcheggiatore abusivo alla stazione centrale di Bari, chiudeva i bambini in casa, serrando la porta con un lucchetto la cui chiave pendeva beffardamente e sinistramente da un ciuccio.
Le spettava il diritto di essere difesa. La superficialità degli assistenti sociali, che avrebbero potuto chiedere l’intervento delle forze dell’ordine per entrare in casa dopo che per tre volte la donna si era rifiutata di aprire la porta fingendo di non esserci, le ha negato anche quello.
Aveva il diritto di essere aiutata. Ma accanto alla sua abitazione gli avventori di una enoteca hanno tranquillamente continuato a bere birra, così come le vicine a parlarsi dai ballatoi, in un dialetto che già per gente del posto a volte diventa difficile da comprendere. Allora il suo pianto sembrava non riguardarli, in ossequio alla legge dell’omertà che regna su un quartiere dove per polizia e carabinieri è impossibile arrivare di sorpresa. Ora, dopo la tragedia, ognuno cerca di raccontare il suo pezzo di verità aspirando al ruolo di giustiziere. Sarebbe bastato che qualcuno avesse svolto quello di cittadino. Eleonora aveva il diritto, come tanti abitanti perbene di Enziteto, di far parte di una città. Invece, uno scriteriato piano regolatore li ha relegati a vivere in una zona senza servizi che con il resto di Bari non ha nulla da spartire. Tranne in periodi elettorali: di qui partì simbolicamente nella primavera scorsa “l’onda Emiliano”, la campagna dell’attuale sindaco Michele Emiliano, ex magistrato antimafia. Qui, in un venerdì di gennaio, lo tsunami della vergogna ha fatto in modo che una bambina di sedici mesi morisse di fame e stenti. A Bari, Italia, nel 2005.

Storia di Salvatore Grasso, innocente (OGGI)

di Antonio Murzio

Catania – I film da incubo puoi vederli al cinema o in televisione. A Salvatore Grasso, cinquantatre anni, siciliano di Riposto, in provincia di Catania, è capitato di finirci dentro. Esattamente la sera del 13 agosto del 1986, quando in Germania, in una zona boscosa nei pressi di un’autostrada che porta a Colonia, venne ritrovato il corpo di Salvatore Calì, un emigrante siciliano, ucciso a colpi di pistola. Da quell’incubo Salvatore Grasso si è potuto risvegliare solo a diciotto anni di distanza grazie ad una lettera arrivatagli nel carcere di Brucoli, in provincia di Siracusa, dove ha trascorso, rinchiuso, gli ultimi undici anni della sua esistenza. La missiva, a firma di Agatino Di Bella, conteneva poche parole: “Ti chiedo scusa se non ho parlato prima, ma tu e Iuculano Cunga siete innocenti e sono disposto a dirlo ai giudici…”.
Di Bella, Grasso e Francesco Iuculano Cunga, tre isolani emigrati in Germania negli anni Ottanta, erano stati, fino all’ arrivo di quella lettera, considerati colpevoli in ugual misura dell’omicidio Calì e per questo condannati.
Per Salvatore Grasso le porte del carcere si sono riaperte il 2 febbraio scorso. Fuori, ad attenderlo, il fratello Carmelo che in macchina lo ha accompagnato a Giarre, a casa della madre Maria, 77 anni.
Ad aspettarlo non c’erano i suoi due figli. Non potevano. Sono morti entrambi, il più grande mentre loro padre, innocente, scontava la pena definitiva a ventisei anni di carcere, inflittagli dopo cinque gradi di giudizio e il vano tentativo di protestare la propria innocenza alla corte europea dei diritti umani. A Strasburgo il ricorso fu rigettato per decorrenza dei termini.
Rosario, a 24 anni, si è suicidato con l’ossido di carbonio. E Grasso considera questo suo figlio una vittima indiretta dell’ingiustizia: “Non ha retto alla vergogna, ed è lui che ha pagato il prezzo più alto.” Un altro figlio diciassettenne morì di aneurisma. Entrambi erano il frutto di un matrimonio non fortunato dell’ex agente immobiliare, con alcuni anni di brillanti studi di giurisprudenza alle spalle.
“Un uomo mite, una persona sana che comunque non appare rabbiosa contro la vita che finora gli ha tolto proprio tutto”, dice all’indomani della scarcerazione l’avvocato Dina D’Angelo, difensore, insieme al collega Puccio Forestiere, di Salvatore Grasso.
La giovane penalista di Augusta sottolinea come il suo assistito “costituendosi al carcere di Brucoli, undici anni, fa, ha preferito percorrere la strada della giustizia. Avrebbe potuto rimanere latitante ma ha scelto di non essere braccato, di percorrere la strada più giusta per un uomo rispettoso di tutte le leggi”.
E’ stata la fede di Grasso nella giustizia, incrollabile nonostante quello che gli stava accadendo, che lo ha spinto ad andare avanti. La fede in Dio lo ha sostenuto nei momenti più bui: “La morte violenta di mio figlio è stato uno strazio e io non mi sono impiccato solo perché sono credente”.
In carcere ha  imparato ad usare bene il computer ed alcuni programmi. Se ne è servito per realizzare un cd-rom in cui è contenuta tutta la sua vicenda giudiziaria, oltre alla sua storia personale: “Conoscevo una ragazza tedesca e ho vissuto un po’ con lei. Quando ad un tratto mi sono ritrovato coinvolto nel delitto del mio amico Giovanni. Ma io ero in un’altra città quella sera, come ha ripetuto ai giudici di Messina il teste.”
“Quel cd”, dice il fratello di Grasso, Carmelo, “ora è agli atti processuali. Mio fratello conta di prepararne un altro quando tutto sarà finito. Di più non posso dire, c’è ancora il procedimento di revisione in corso e per rispetto dei giudici, aspettiamo il 28 febbraio. Inutile cantare vittoria adesso.”
La cautele non sono solo sue. Dice l’avvocato D’Angelo: “La difesa, che naturalmente ha molto a cuore l’esito finale, rispetterà comunque tutte le decisioni della Corte”.
La data indicata dal fratello del protagonista di questa storia è quella in cui i giudici della Corte d’appello di Messina, su mandato della Cassazione, potranno finalmente scrivere la parola fine all’incubo di Salvatore Grasso. L’assoluzione è quasi certa, visti gli elementi nel frattempo acquisiti dalla difesa.
Finalmente la testimonianza di Paolo Samperi, il teste indicato dallo stesso Grasso nel suo cd-rom, sarà rivalutata alla luce della confessione resa nella lettera dal vero colpevole dell’omicidio. Samperi, anche lui all’epoca emigrato in Germania, la sera dell’omicidio parlò al telefono prima con la vittima, poi con Salvatore Grasso e l’altro imputato, Iuculano Cunga. Il numero di telefono della vittima e quelli di questi ultimi due corrispondevano ad utenze telefoniche di due città tedesche. Quelle città distavano tra loro duecento chilometri. Una distanza impossibile da coprire nell’arco di tempo tra l’orario della conversazione, verificabile dai tabulati della società telefonica e  quella dell’omicidio, stabilita con precisione dall’autopsia sul cadavere di Calì.
Il testimone chiave è stato rintracciato grazie al caparbio e paziente lavoro svolto dai difensori. Racconta ancora l’avvocato D’Angelo: “Samperi si era fatto avanti in un primo momento solo attraverso i familiari, poi finalmente si è deciso a parlare”.
La testimonianza è stata resa ai giudici di Messina, che nel fascicolo processuale di Salvatore Grasso adesso hanno anche la lettera che lo scagiona definitivamente.
All’uscita dal carcere l’ex immobiliarista, che adesso sogna solo davanti ad un computer, ha rilasciato le prime e uniche dichiarazioni sulla sua vicenda. “Non so dove ho trovato la forza di continuare a credere nella giustizia. Però, continuo a crederci. Anche se ho capito a mie spese che il giudice è solo un uomo e bisogna avere la fortuna di trovarne uno capace di rispondere alla propria coscienza. Gli atti di un processo sono sempre gli stessi solo che ogni volta sono stati interpretati in modo diverso. E’ stata una roulette in cui ho perduto un pezzo di vita e un figlio che nessuno potrà mai restituirmi.”. Poi attorno a lui si è creato un muro di protezione, eretto per volontà degli avvocati, a guardia del quale c’è il fratello Carmelo.
Perché dietro l’angolo, anche per Salvatore Grasso c’è il futuro: “Ho realizzato al computer la sigla di un telegiornale, spero magari di venderla ad una tv privata siciliana”, dice a chi gli chiede cosa l’aspetta domani.
“Tornerà piano piano a vivere anche se non sarà facile – dice ancora Dina D’Angelo, l’avvocato difensore, la cui sensibilità verso il caso umano di Grasso e il dramma del figlio suicida, sembra acuita da una recente maternità.
L’unico commento appena sopra le righe sfugge al fratello Carmelo quando dice: “Aspettiamo il 28 febbraio, dopo ci sarà da divertirsi”, risponendo alla domanda su cosa accadrà quando Salvatore sarà finalmente riconosciuto innocente e definitivamente scagionato.
Quel giorno i titoli di coda dell’incredibile film da incubo vissuto da protagonista da Salvatore Grasso scorreranno in un’aula del tribunale di Messina. Ma al cinema e in televisione una pellicola dura solo centoventi minuti. La tragedia di quest’uomo è durata diciotto anni, e al termine della storia non ci saranno applausi e standing ovation.
Rimarrà solo il rimpianto per la sua vita annullata e il rimorso per quella distrutta di un ragazzo di ventiquattro anni. Soffocato, prima ancora che dal gas di scarico della sua auto, dalla vergogna per un padre in carcere. Innocente.

ER, sorelline in prima linea (OGGI)

di Antonio Murzio

Riccione – Dopo l’avventura a lieto fine di cui è stata protagonista con la sorellina, Giulia, 11 anni, ha detto al papà che da grande vuole fare il medico, “perché ho scoperto che mi piace salvare le vite umane”.  “Poi – racconta sorridendo Gabriele Maestri, trentottenne imprenditore di Riccione – ci ha riflettuto un po’ su e ha cambiato idea: papà, forse è meglio se faccia la dentista, si guadagna meglio”.
Con la sorellina Cecilia, di otto anni, Giulia ha salvato la vita alla mamma, Barbara Bologna, di 40 anni, colpita, mentre era sola in casa con le bambine, da una lacerazione dell’aorta ascendente, accompagnata da una emorragia interna.
La prontezza di spirito delle due bambine è stata determinante. Giulia e Cecilia non si sono lasciate prendere dal panico ma hanno messo in pratica la lezione impartitagli più volte dal papà con tanto di esercitazioni pratiche: “Bimbe, se dovesse accadere qualcosa quando papà è fuori, per prima cosa chiamate il 118”.
Di ritorno dalla clinica di Codignola di Ravenna, dove la signora Barbara è ricoverata dopo l’intervento che l’ha salvata, Gabriele Maestri racconta: “Con Giulia e Cecilia avevamo fatto delle simulazioni telefoniche: loro dovevano comporre il numero di emergenza sanitaria e io da un altro telefono della casa, dopo aver staccato la spina, mi comportavo come se fossi un vero operatore, facendo domande su chi fosse l’ipotetico paziente da soccorrere, la sua età, i sintomi ed altro”.
Un’idea che a Maestri era balenata in mente dopo aver frequentato, presso la tipografia di famiglia, di cui è direttore commerciale, un corso di Basic Life Support (BLS), “una tecnica americana – spiega – di primo soccorso”. Il fatto di abitare in una zona piuttosto isolata l’aveva quindi convinto a trasferire in famiglia le nozioni acquisite, anche se apparentemente sembrava non essercene imminente bisogno.
“Mia moglie non soffre di alcuna patologia particolare – racconta l’imprenditore – ma qualche giorno prima che accusasse il malore mi aveva detto di avere dei dolori al petto, spiegandoli però con lo sforzo fatto per spingere lo slittino delle bambine sulla neve. E comunque in casa i pericoli sono sempre in agguato e io spesso, proprio come quel giorno in cui mia moglie è stata male, sono fuori per lavoro”.
Quando hanno visto la mamma accasciarsi sul divano perdendo i sensi, le sorelline “in prima linea” hanno dapprima scaldato le sue mani con le carezze e poi tentato di farla rinvenire prendendola a schiaffi.
Racconta divertito Maestri: “Da quello che mi hanno raccontato hanno effettuato anche un tentativo di respirazione bocca a bocca e un massaggio cardiaco, ma questo praticato …all’altrezza dell’ombelico! E meno male, altrimenti avrebbero potuto peggiorare la situazione.” Giulia ha per prima cosa telefonato ad alcuni vicini e, appena chiusa la conversazione con questi, che hanno allertato il 118, ha chiamato i nonni.
A otto e undici anni, quando si combina “qualcosa di buono” ci si aspetta un premio. “Le bambine – dice commuovendosi Gabriele Maestri – il più bel regalo l’hanno avuto dalla Madonnina: la loro mamma è ancora con loro. Anche se, vista la maturità dimostrata da Giulia, abbiamo dovuto cedere alla sua richiesta di un telefonino tutto suo, facendogli usare il mio cellulare di riserva”.
“E da questa storia, per quanto mi riguarda – conclude – ho avuto la conferma che Dio esiste”.
La certezza, per tutti gli altri, è che Barbara Bologna è stata salvata dai suoi due angeli di otto e undici anni che in ospedale le hanno consegnato un disegno con la scena del malore e un angioletto con su scritto: “Mamma, ma dove vuoi andare?”.