Gas, l’arma di Putin gela l’Italia

di Gennaro De Stefano e Antonio Murzio

http://www.gennarodestefano.it/art0236.asp

La Cina è vicina? No, è arrivata (GENTE, 21/2006)

cina

Visualizza le pagine del settimanale Gente con l’inchiesta cofirmata con Gennaro De Stefano (cliccando si aprirà il pdf)

Cieli grigi sull’Alitalia (Gente, febbraio 2006)

di Gennaro De Stefano e Antonio Murzio

Aeroporto di Fiumicino, primo pomeriggio di un giorno di gennaio 2005.  Il nostro lavoro richiede una improvvisa partenza per Palermo; affannati corriamo alla biglietteria Alitalia. “Sola andata 200 euro, con lo sconto giornalisti 170”, dice cortese l’impiegata. Paghiamo e ci imbarchiamo. Ore 19.30 dello stesso giorno, l’intervista a Palermo è finita, corriamo all’Aeroporto Falcone e Borsellino per riprendere il volo di ritorno. Alla biglietteria ci dicono che c’è solo un volo Air One, alle 20.30. “Porca miseria”, pensiamo, “chissà che mazzata adesso tra capo e collo”. Ma dobbiamo rientrare a Roma e quindi acquistiamo il biglietto: “Ecco a lei”, dice l’hostess di terra, “Sono 53 euro”. Già, proprio così. Cinquantaré euro contro centosettanta: stessa tratta, stesso tempo, stesso servizio, stesso caffè a bordo. Air One ci costò meno di un terzo di Alitalia: “Il sabato la compagnia offre queste promozioni”, disse l’hostess e noi pensammo che, su questa storia, un servizio giornalistico non ci stava per niente male.
Nell’episodio minimale che vi abbiamo raccontato, si può racchiudere il senso di una crisi profonda che ormai da quindici anni scuote la compagnia di bandiera, tra spinte e controspinte, centinaia di milioni di euro di debiti, presititi garantiti da ipoteche e avvoltoi che girano attorno alla presunta carcassa della compagnia per divorarla dopo averla sbranata con i clientelismi e le follie, i privilegi e le assurdità. Ma se oggi parliamo di crisi quasi definitiva e di
retrocessione di Alitalia da compagnia di serie A (vanto del Made in Italy) a compagnuccia di serie B è per colpa degli appetiti clientelari, delle rivendicazioni salariali al limite dell’assurdo e delle scelte irrazionali che sono state operate in questi anni. Prima di tutte quella di Malpensa come primo Hub italiano davanti a Fiumicino.”Neppure nei Paesi come la Gran Bretagna o la Francia ci sono due Hub”, dice a Gente M.M. pilota e primo ufficiale della compagnia di bandiera che chiede l’anonimato per tema di ritorsioni.
“In Italia, per motivi politici e clientelari si è voluto promuovere Malpensa come primo Hub e Fiumicino a ruota. Tutto questo non ha alcun senso, innanzitutto perché Malpensa ha costi esorbitanti, tanto che molte compagnie inzialmente propense a utilizzare lo scalo come Hub Cargo, ora dirottano su Brescia, Bergamo e altri aeroporti minori della zona. La verità è che lo scalo ideale per i passeggeri è Roma, mentre qualche politico ha preteso di imporre Milano costringendo l’Alitalia a spaccare in due la flotta”.Ma al di là di questo, come si spiega che la nostra compagnia di bandiera costa sempre più degli altri? “Alitalia garantisce il passeggero anche in caso di mancati atterraggi nello scalo di destinazione”, spiega il nostro pilota che dell’appartenenza alla compagnia mena giustamente vanto: “Non voglio citare altri vettori, ma l’addestramento del personale e lo standard qualitativo molto elevato di Alitalia, giustificano il prezzo del biglietto. Tenga conto che molte compagnie spesso non pagano i servizi di cui beneficiano negli aeroporti, mentre Alitalia salda tutto fino all’ultimo centesimo. Certo, per molti anni, le gare d’appalto le vincevano i parenti dei politici e quel che costava dieci, Alitalia lo pagava dodici. Ma oggi questa vergogna dovrebbe essere finita”.Volare basso o volare alto? In attesa che il suo destino si compia, i dipendenti Alitalia hanno scelto, per il momento, di non volare affatto. Con i risultati che televisioni e giornali ci hanno rovesciato addosso in questi ultimi giorni: aerei rimasti a terra, picchetti del personale in sciopero agli ingressi degli aeroporti, voli annullati 900 in pochi giorni) e soprattutto viaggiatori costretti a pagare le
conseguenze di una vicenda che, al di là delle figure retoriche o dei giochi di parole, trova origine proprio nello scontro tra due concezioni del trasporto aereo: quello low cost (a basso costo) e quello delle compagnie di bandiera, garantite da robuste iniezioni di fondi dello Stato anche quando, è il caso di quella italiana, il futuro è già segnato e si chiama privatizzazione. Ma dietro gli scioperi, le trattative e le minacce di far riscoprire agli italiani la passione per i treni, si cela uno scontro politico che vorrebbe “svuotare”
l’aeroporto Leonardo da Vinci di Roma Fiumicino, a vantaggio di quello lombardo di Malpensa. Il primo dei due scali è gestito dall’Adr, società che fa capo a Maurizio Romiti e al padre Cesare, ex amministratore delegato Fiat. Mentre le ali dello sviluppo di Malpensa, gestito dalla Sea (Società esercizi aeroportuali) di Milano, toccata alla Lega Nord in fase di spartizione delle controllate lombarde, sono state tarpate dall’impatto ambientale negativo su tre province (Novara, Milano e Varese), contestato dalle associazioni ecologiste, tramite alcuni parlamentari, anche in sede europea.
La battaglia Alitalia, al di là del numero dei lavoratori in esubero e degli sprechi che hanno sempre contraddistinto la compagnia di bandiera (un piccolo esempio: solo gli equipaggi Alitalia quando sono fuori sede a fine turno vengono alloggiati in albergo, quelli delle altre compagnie rientrano nelle proprie città d’origine, con un considerevole risparmio sui costi di gestione del personale) si gioca principalmente sul fronte geografico-politico.
Negli archivi de La Padania, il quotidiano del partito di Umberto Bossi, ad esempio, lo sfogo del presidente della provincia più leghista d’Italia, quella di Varese, è di qualche tempo fa: “Alitalia ha tradito Malpensa a favore di Roma, ma il mercato dell’hub è qui, nel cuore del Nord”, dichiarava il leghista Marco Reguzzoni, che salutava l’arrivo, ai vertici Alitalia, dell’avvocato Giuseppe Bonomi, giunto sulla poltrona di presidente dopo aver presieduto proprio la Sea, e “una carriera politica”, come recita il suo curriculum ufficiale, “tutta svolta nelle fila della Lega Nord”. Fu proprio durante il suo mandato alla Sea che fu inaugurato l’hub di Malpensa, che secondo il Covest, il
Comitato Ovest Ticino, “ha sempre rappresentato e continua a rappresentare per Alitalia principalmente una fonte di perdite ed è quindi ovvio che sia restia ad investire in tale struttura”.
Il termine hub (quello tecnicamente esatto sarebbe “hub and spoke”) viene usato nelle reti di trasporto, in particolare nell’aviazione civile. Le compagnie scelgono uno scalo dove si concentrano la maggior parte dei voli, che funziona solitamente anche come base (o una delle basi) di armamento della linea aerea. Alitalia adesso ha due hub (Fiumicino e Malpensa) e questo ha creato dsispersione e maggiori costi. Concentrando i collegamenti su un solo hub, invece, il risultato è la capacità di fornire più frequenze tra due aeroporti cosiddetti “spokes”.  Il flusso di traffico, in parole povere, invece di risolversi con voli diretti, viene convogliato sull’hub. A parità di flusso di traffico tra due aeroporti “spokes” (esempio, Catania e Venezia) il convogliare traffico su un hub (esempio Roma) permette di ottenere più frequenze giornaliere). Per esempio, se il flusso di traffico da Catania a Monaco è di 50 passeggeri al giorno, è antieconomico aprire una linea diretta. Ma se si realizza il collegamento passando sull’hub di Roma, ecco che diventa giustificabile dato che sulle linee Catania-Roma e Roma-Monaco vengono trasportati anche passeggeri diretti su altri “spoke” della rete (per esempio Venezia, Milano, Torino, etc). Ciò si traduce non solo nella possibilità di realizzare il collegamento ma anche di avere più scelta di voli durante la giornata.
Se dunque Air France, Lufthansa, British e Iberia hanno un solo hub, perché mai Alitalia ne ha dovuti mettere in piedi due?
“Il colpo mortale è stato inferto all’Alitalia con Malpensa”, dice al nostro giornale Marco Isabelli, 39 anni, assistente di volo impegnato nel sindacato Sulta. “Dividersi in due hub ha spezzato la compagnia e l’ha indebolita. Alitalia è la prima azienda del Lazio e con l’indotto ci sono 20 mila dipendenti. Dobbiamo ringraziare Alleanza Nazionale se questi posti di lavoro sono salvi. Ora c’è la sensazione che qualcuno voglia farla fallire anche se da quando sono entrato io, quattordici anni fa, Alitalia è sempre stata in crisi. Ma le potenzialità ci sono, se si pensa che Roma-Milano Linate è una delle tratte in Europa che “pompa di più”.

Intervista al supercampione di Passaparola (da GENTE n. 10/2006)

di Antonio Murzio

«Mi aiuti, la prego: mi servono 2500 euro per evitare di essere sfrattato»; «Dottore, ho bisogno di 5000 euro, sa, ho subìto un intervento alla lingua»; «Mio figlio ha ricevuto la visita della Finanza e ora deve versare ventimila euro al Fisco per i cinque anni in cui non ha dichiarato il reddito, me li manda?». Ferdinando Sallustio sorride mentre snocciola il lungo elenco delle richieste che gli sono arrivate dopo il successo di “Passaparola”. E nella sua casa di Ostuni, dove qualche settimana fa la cicogna si è posata per la seconda volta, questa volta con in becco il fiocco rosa. Per la gioia di Ferdinando e quella di mamma Maria Dolores, è arrivata, infatti, Chiara Sophia, secondogenita di casa Sallustio dopo Antonio Francesco.
Il successo è una bestia strana: c’è chi per essersi mostrato in mutande in tv, ritiene di essere arrivato. E c’è chi, sempre in tv, ha dimostrato di possedere virtù molto più nobili ma ha scelto di mantenere un profilo basso. Ferdinando è uno di questi rari esempi: «Non penso di avere doti superiori rispetto ad altre persone», tiene subito a precisare il supercampione di “Passaparola”, subissato oltre che da richieste di aiuto economico anche da suppliche di raccomandazione di chi vorrebbe il suo quarto d’ora di celebrità in trasmissioni televisive, «sono solo una persona che cerca di sfruttare la più grande ricchezza che possediamo: il tempo. Io ho imparato da mia madre, che a 73 anni lavora ancora quindici ore al giorno nell’edicola-libreria di famiglia, che nello stesso tempo si possono fare bene più cose contemporaneamente. Basta sapersi organizzare».
Così Ferdinando spiega il segreto che gli ha consentito di sbarazzarsi della concorrenza nella trasmissione di Canale 5: «Ho realizzato un manuale con 6-7 mila domande su qualsiasi materia divise per lettera: è lì ad esempio che avevo studiato la famosa domanda per la quale Gerry Scotti scommise che sarebbe tornato scalzo a casa se avessi saputo rispondere». Per chi si fosse perso quella puntata, una delle 105 a cui Ferdinando ha partecipato, il bravo presentatore del quiz perse la scommessa e si sflò le scarpe in studio: dopotutto, non molti potevano sapere il nome di un sistema di antica scrittura Inca con la lettera “Q”. Ferdinando sì.
Il suo tempo Sallustio lo divide tra il lavoro in banca, la famiglia, l’edicola, la partecipazione attiva ad associazioni di volontariato, scrittura, lettura, teatro… e l’elenco potrebbe continuare con le ninnenanne che l’hanno reso subito simpatico al grande pubblico, scritte per il figlio e che ora, «per par condicio», scherza, «anche per la nuova arrivata».
L’unico ambito dal quale è esentato per «manifesta incapacità» sono le faccende domestiche: «Sono stato esautorato da mia moglie quando Antonio aveva tre mesi; provai a mettergli il pannolino ma non tenne proprio nel momento in cui doveva, quindi da allora…».
Maria Dolores ride di gusto. Si sono conosciuti dieci anni fa perché entrambi conducevano programmi in una radio privata di Ostuni. Galeotta fu la regia: «Conducevo ma non sapevo usare un mixer», svela Ferdinando,  «allora lei mi faceva da regista. La dichiarazione d’amore glielo ho fatta un sabato pomeriggio di Pasqua mentre andavamo a Messa: le ho dato un foglio con il testo di “Mi ritorni in mente” di Battisti con le parole cambiate, scritte da me. Nel ’99 ci siamo sposati».
E con le ammiratrici, come la mettiamo? «Innanzitutto mia moglie si fida di me e pensa “tanto questo non se lo prende nessuno”», esplode in una sonora risata Ferdinando, che aggiunge: «e poi l’età media delle mie ammiratrici è sui 60-65 anni, tranne una che ha tenuto ad informarmi che sta per laurearsi con una tesi sulla letteratura erotica. Ma potrebbe anche essere una fuori corso… di lungo corso!».
Tra prima partecipazione al quiz e la sfida che l’ha incoronato supercampione, Ferdinando ha portato a casa 277.500 euro: «Sono serviti per estinguere il mutuo dell’acquisto di casa. Con la somma che non mi è stata ancora liquidata farò ristrutturare l’edicola dei miei. E naturalmente ho fatto della beneficenza, ma attraverso canali istituzionali». Ferdinando, infatti, è molto impegnato in alcune associazioni, come l’Aifo, l’Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau contro la lebbra, ma anche sul fronte del “Movimento per la vita”. Racconta: «Partecipo attivamente al progetto Gemma, che consiste in un aiuto economico alle donne che vorrebbero abortire esclusivamente per motivi di natura economica. Verso 160 euro al mese per diciotto mesi perché è un lasso di tempo in cui le cose potrebbero cambiare in meglio per la donna e la coppia. C’è una bambina, dei due che ho aiutato a nascere in questo modo, che oggi va all’asilo con nostro figlio», dice orgoglioso, ma senza presunzione. Perché lui, in realtà, vorrebbe che non si sapesse del suo impegno ma non per evitare scocciature («A una signora che mi ha telefonato in banca dicendomi che le servivano 200 euro per una visita dal professor Veronesi ho mandato un vaglia on line ma non ho ricevuto neppure un grazie»): «Preferisco non farlo sapere perché potrebbero pensare che queste cose io le racconti per vantarmene», dice arrossendo.
Fosse stato per lui, a “Passaparola” non ci sarebbe neppure arrivato: «Quando mi hanno chiamato per la preselezione regionale sono cascato dalle nuvole; la domanda l’aveva inviata infatti, a mia insaputa, mia moglie».
Presto Ferdinando lo rivedremo sugli schermi di Canale 5 ma non in un quiz. Ha prestato il suo volto per la pubblicità di un’associazione di volontariato a cui Mediaset ha concesso gratuitamente degli spazi. Anche la sua partecipazione è stata a titolo gratuito: «Sono un giornalista e non posso fare pubblicità, l’Ordine lo vieta ma in ogni caso non mi presterei mai», dice, dando una lezione di stile a colleghi molto più illustri. Il suo sogno era di fare il giornalista a tempo pieno. Ci ha rinunciato per restare vicino ai suoi: «Non ho mai voluto lasciare Ostuni; sono figlio unico e ho sempre aiutato i miei nella loro attività. Se so molte cose lo devo a loro perché ho sempre avuto la possibilità di leggere tanto e gratis. Ancora oggi tutte le sere vado a dare una mano per fare la resa dei giornali».
Una tappa obbligata che non gli impedisce (anche!) di scrivere per il teatro o di organizzare e moderare dibattiti. Ma la sua più grande ambizione ora è riuscire a portare Gerry Scotti in piazza ad Ostuni in giugno, per la prima puntata in esterni di Passaparola, in occasione di un premio che la città bianca tributerà al presentatore pavese.
Nel frattempo Ferdinando non si ferma: «Dopo i grandi discorsi della storia, mi piacerebbe scrivere il primo trattato italiano di tuttologia», confida. Ma senza lasciare il suo posto in banca. Dove arrivò cinquantunesimo ad un concorso per cinquanta posti e solo dopo venne ripescato.
Ma in cosa diavolo sarà consistito l’esame d’ammissione?

Da due anni è sepolto in carcere negli USA (Gente n. 13/2006)

di Antonio Murzio

C’è un italiano “dimenticato” nel carcere della contea di Ventura, stato della California, negli Usa. Dimenticato da tutti, tranne che dalla sua compagna italiana, che si batte perché venga riconosciuta la sua innocenza. Carlo Parlanti, 40 anni, è in cella da due anni con l’accusa di violenze sessuali ai danni della sua ex convivente americana, Rebecca White. A difenderlo, con tutte le sue forze, è la sua fidanzata italiana, Katia Anedda, che crede nella sua innocenza e da due anni, da quando Carlo fu arrestato a Dusseldorf, in Germania, in forza di un mandato di cattura internazionale, si batte perché questa venga dimostrata. Parlanti (da sette mesi affetto da tubercolosi contratta proprio nel carcere americano nel quale è rinchiuso) rischia quindici anni di reclusione. Il verdetto definitivo è previsto per il 7 aprile.
“Quest’incubo è cominciato il 18 luglio del 2002”, racconta Katia Anedda, “quando la White, allora convivente di Carlo, denunciò di essere stata picchiata, trascinata per i capelli in camera da letto, e dopo essere stata legata, costretta a subire violenza sessuale dalle 9 alle 2.30 del mattino”. Il fatto, secondo la denuncia della donna americana, sarebbe accaduto il 29 giugno.
“La  denuncia della White”, prosegue Katia, “scatta però solo dopo che Carlo le aveva chiesto di troncare la loro relazione e di lasciare la casa in cui vivevano, e rientra in Italia. Carlo è rimasto per due anni all’oscuro della denuncia presentata contro di lui, fino a quando è stato arrestato all’aeroporto di Dusseldorf ed estradato negli Usa”.
“Essendo stato emesso il mandato di cattura internazionale quando Parlanti era residente in Italia, egli avrebbe dovuto, in base alla nostra legge, essere arrestato e processato nel nostro Paese”, cita il codice il trentatrenne penalista romano Gianluca Arrighi. Il battagliero avvocato della capitale ha cominciato a studiare gli incartamenti del processo Parlanti da alcune settimane e ha deciso di affiancare in patrocinio gratuito Katia Anedda, fino ad ora ‘spremuta’ da due avvocati americani e uno berlinese per oltre 150 mila euro. Parcelle che l’hanno portata a indebitarsi fino al collo, tanto, come dice lei stessa a Gente, “da prendere in seria considerazione l’ipotesi di rivolgermi agli usurai”. “Intanto”, confessa senza falsi pudori, “aspetto da un giorno all’altro di essere protestata”.
Ma l’Anedda non si arrende e tiene un diario della prigionia del suo uomo sul sito internet http://www.carloparlanti.it/, attorno al quale è riuscita a coagulare l’attenzione di molti italiani che credono nell’innocenza di Carlo. Chi non raccoglie i suoi appelli sono le istituzioni, nonostante le numerose lettere e suppliche: “E’ preoccupante il  disinteresse manifestato dalle istituzioni italiane per questa drammatica vicenda giudiziaria e umana”, dice l’pavvocato Arrighi, che, dopo la lettura degli atti del processo, afferma con sicurezza: “Le incongruenze sono molte. Gli elementi d’accusa a carico di Parlanti sono tutti racchiusi in due testimonianze ed in una fotografia della persona che lui avrebbe violentato. Nell’immagine si vede però soltanto un braccio con un livido di pochi centimetri all’altezza del gomito.”
E mentre Katia denuncia il sottofondo di razzismo che sta caratterizzando la vicenda (“Uno dei punti più sottolineati nell’arringa dell’accusa,è il fatto che a Carlo piaccia il buon vino “come a molti italiani”), l’avvocato Arrighi conclude: “Per ora possiamo soltanto augurarci che il giudice si renda conto delle enormità finora commesse. I passaggi successivi, in caso di una lunga condanna, possono essere solo correlati ad una possibile estradizione. La battaglia, comunque,  è lunga e difficile”.

SALUTI DA CORLEONE (Gente n. 18/2006)

saluti da corleone

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da Corleone (Palermo)
Antonio Murzio

“Come tutte le cose umane la mafia ha avuto un inizio e avrà una fine”. Giovanni Falcone, il magistrato che per primo, grazie alle rivelazioni di Tommaso Buscetta, squarciò il velo dei segreti sull’organizzazione di Cosa Nostra, non perdeva occasione per ripeterlo. Oggi l’arresto di Bernardo Provenzano non scrive ancora la parola fine, ma la cattura del capo dei capi, dopo 43 anni di latitanza, sicuramente chiude un periodo della storia della criminalità organizzata di stampo mafioso in Sicilia. Una storia snodatasi per oltre cinquant’anni, che ha coinciso con un mezzo secolo di predominio della famiglia dei corleonesi. Mezzo secolo in cui al vertice di Cosa Nostra si sono succeduti personaggi nati e cresciuti nel “paese delle cento chiese” che oggi è meta di un triste pellegrinaggio dell’orrore sui luoghi che hanno visto compiersi in sequenza le gesta del dottor Michele Navarra prima, di Luciano Leggio e del suo braccio destro Totò Riina poi, e in ultimo del “fantasma”, non si sa ancora quanto invisibile, Bernardo Provenzano. Per cinquant’anni hanno comandato i “viddani” di Corleone, i “campagnoli”, come venivano definiti con sprezzo da quelle famiglie mafiose di Palermo che avrebbero poi ceduto lo scettro del comando alla forza e alla prepotenza sanguinaria dei corleonesi. Un’era mafiosa che ha toccato l’apice dell’orrore con la stagione delle stragi, dei mille morti ammazzati, dei bambini torturati e sciolti nell’acido, quando al vertice della Cupola sedeva Totò “u curt”. Con l’arresto di Riina (1993), è Provenzano che diventa il boss dei boss e il suo governo, durato tredici anni, è stato all’insegna del basso profilo mediatico e del volare alto negli affari: appalti, lavori pubblici, assunzioni. Cose che la gente, in virtù del principio che se di un fatto non se ne ha notizia, quel fatto non è mai accaduto, ha imparato, per convenienza o per paura, ad ignorare. Tutte le attività dell’epoca dello “zi Binnu”, si sono svolte senza il rumore sordo dei colpi di pistola, senza chili di plastico fatti esplodere sotto le auto dei magistrati, senza le sventagliate di mitragliette di fabbricazione sovietica. Il risultato è che il silenzio imposto della mafia sembra quasi che sia riuscito a zittire anche la voglia di riscatto dei siciliani onesti, che rimangono comunque la stragrande maggioranza, a spegnere quella tensione ideale che seguì alle stragi di Capaci e di via D’Amelio.
“Tredici anni di pax mafiosa hanno addormentato le coscienze”, dice Dino Paternostro, segretario della Cgil di Corleone e direttore della rivista on line “Città nuove”. Nel paese di Provenzano, dove l’amministrazione comunale ha deciso di proclamare l’11 aprile giorno di festa, Paternostro, al quale i mafiosi hanno bruciato l’auto il 28 gennaio scorso, è rimasta una delle poche voci che si leva apertamente contro la mafia. Certo, ci sono i ragazzi delle cooperative che coltivano i terreni confiscati a Riina, ma l’atteggiamento più diffuso è ancora quello di deferenza verso i mafiosi. Così può capitare di sentirsi proiettati all’indietro nel tempo, sul set del “Giorno della civetta”, quando in un assolato e caldo primo pomeriggio, nel cimitero del paese, vicino alla tomba di Luciano Leggio, il custode, dispiaciuto, afferma: “Di mio zio, del fratello di mia madre, però, nessuno ne parla…”. L’uomo si lamenta dell’oblio in cui è caduto il suo parente, al quale, è la sua personalissima opinione, un posto nella storia del paese spetterebbe di diritto. Anzi, con una battuta fin troppo ovvia, il posto spettante sarebbe più esatto definirlo d’onore: perché lo zio “illustre”, i meriti storici che non ha visto ancora riconosciuti, sono l’essere stato un mafioso, uomo d’onore, appunto, e soprattutto essere stato come un fratello per Luciano Leggio”.
“Ma poi questa mafia cos’è? Non esiste…” sostiene con veemenza un ragazzo, che partecipa al capannello formatosi nel camposanto. Lui, 26 anni, è il più giovane dei tre fratelli Ruggirello, che nel proprio bar, nel centro di Corleone, servono l’Amaro del padrino, di propria ricetta e produzione.
“Noi abbiamo sfruttato imprenditorialmente l’etichetta che hanno affibbiato al nostro paese, scherzandoci su…”, dice, “che male c’è?”
Si può scherzare su centinaia di morti ammazzati e di persone sciolte nell’acido? Le parole, a volte, possono riuscire più macabre del luogo in cui vengono pronunciate: “Da picciotto, è normale, Provenzano doveva farsi largo, ma poi che fastidio ha dato? Anzi…”. Per lui lo zi Binnu, qualcuno deve averlo necessariamente “venduto agli sbirri, sennò e quando lo pijau…”.
Di tutt’altro avviso Paternostro, per il quale la cattura di Provenzano “è solo il risultato di una brillante azione di polizia”. Il sindacalista racconta di due vertenze che la Camera del lavoro di Corleone ultimamente sta seguendo: una riguarda la ditta che ha l’appalto della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti, che secondo la Cgil, li stocca anche in siti abusivi. L’altra è quella dei lavoratori di un pastificio che commercializza proprio i prodotti delle cooperative antimafia. Da sette mesi i lavoratori non percepivano lo stipendio. Ma Paternostro tiene a precisare: “Mi piacerebbe che i giornali mettessero in risalto i contorni in chiaroscuro di Corleone, che non ha dato solo i natali a Leggio e agli altri mafiosi ma anche al sindacalista Placido Rizzotto, grande organizzatore delle lotte dei braccianti e a Bernardino Verro, primo sindaco socialista di inizio Novecento”. Il chiaro. Lo scuro è che entrambi sono stati uccisi dalla mafia, e del primo non sono mai stati ritrovati neppure i resti.
Antonio Murzio