Sofia Coppola per la prima volta in Italia

La prima volta di Sofia Coppola

La pagina pubblicata dal Quotidiano della Basilicata di domenica 20 aprile sulla visita della figlia di Francis Ford Coppola nel paese di origine del regista di “Apocalypse now” (clicca sul link sopra per visualizzare il pdf)

Per il delitto di Cogne l’atto finale

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di Gennaro De Stefano e Antonio Murzio

(anche su: http://www.gennarodestefano.it)

Il mostro continua a far paura (GENTE, n. 31/2005)

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di Gennaro De Stefano e Antonio Murzio

Gianfranco Stevanin, 45 anni, il serial killer di Terrazzo, in provincia di Verona, condannato all’ergastolo per aver ucciso tra il 1993 e il 1994, cinque giovani donne, ha maturato le condizioni per tornare in libertà con un permesso premio. Questo non vuole dire però, come spiega il criminologo Massimo Picozzi a pagina 46, che l’assassino potrebbe davvero lasciare il carcere. È da ritenere praticamente impossibile che le commissioni di esperti psicologi, incaricate di valutare eventuali richieste di permessi, diano il loro assenso. Anche se nessuno dimentica (ecco la raagione dell’inquietudine) che altri assassini seriali come Angelo Izzo, uno dei boia del Circeo hanno potuto godere di questi benefici e ne hanno approfittato per compiere altri orrendi crimini. La notizia che Stevanin a norma di legge potrebbe uscire in permesso premio, giunge insieme alle affermazioni del tenente colonnello dei carabinieri Gianpiero Paparelli, che si occupò a suo tempo delle indagini, e che a Gente, rivela: «Mi resta il cruccio di non aver potuto continuare a scavare nei terreni di proprietà degli Stevanin. Sono convinto che altri cadaveri di persone scomparse e mai più ritrovate, verrebbero fuori. Noi, all’epoca, abbiamo delineato tutta una serie di omicidi. Pur non avendo elementi, ci convincemmo che, probabilmente, Stevanin aveva ucciso nove vittime. Durante l’indagine trovammo anche tracce di persone uccise, di cui nessuno ha denunciato la scomparsa. Se avessi potuto, avrei scavato per tirar fuori, oltre a qualche fotografia, anche qualche corpo per potergli dare, come si dice, cristiana sepoltura». Ma perché non si scavò? «Perché», risponde Paparelli, «all’epoca si disse: “Dobbiamo andare al processo subito, con le prove che abbiamo, per scongiurare la scadenza dei termini di custodia cautelare. Poteva essere controproducente chiedere una proroga, con tutto quello che avevamo in mano. Chiamiamola pure fretta. Perché non si sia più andato avanti», prosegue l’ufficiale, «non lo so, forse dovreste chiederlo alla dottoressa Omboni che conduceva l’indagine. Il magistrato, prima del rinvio a giudizio, ritenne che, dal punto di vista processuale, non era opportuno allungare i tempi». Una dichiarazione scioccante quella del tenente colonnello. Maria Grazia Omboni, oggi alla Procura Generale di Brescia, spiega a Gente: «Quella di poter trovare altri corpi sepolti nel terreno di Stevanin era una ipotesi e si fece tutto quello che si poteva fare, ma non fu trovato nulla. Le ricerche furono molto estese, molto approfondite ma le ipotesi non trovarono conferma nelle indagini». L’avvocato vicentino Cesare Dal Maso, difensore del serial killer, si stupisce per il fatto che Gente sia a conoscenza della notizia del possibile permesso premio e preferisce ridimensionarla. Un criminale ve emettere al momento della richiesta avanzata dal detenuto». Dalla vicenda di cui Stevanin si rese protagonista (le vittime, tutte donne, furono trovate mutilate e di due non si è mai riusciti a risalire alla identità), vengono fuori ulteriori squarci di verità assolutamente inediti: almeno due delle vittime avrebbero potuto salvarsi. Alessandra Giulietti non aveva più notizie della figlia di 29 anni, Claudia Pulejo, dal 15 gennaio 1994. L’ultima volta che si erano viste, lei le aveva detto di avere un appuntamento proprio con Stevanin, che entrambi conoscevano, per scattare foto. A fine gennaio, quando la signora si presentò in caserma per denunciarne la scomparsa, le sue parole non destarono allarme. Claudia era tossicodipendente e bastò per stabilire che non c’era da preoccuparsi,che «sarebbe tornata». A nulla valsero le insistenze della Giulietti sul fatto che la figlia, che si bruciava l’esistenza con l’eroina, non aveva mai smesso di andarla a trovare ogni due giordi quella fattura, premiato per buona condotta, scatenerebbe immediatamente le reazioni negative dell’opinione pubblica. L’avvocato ne è consapevole e dice: «Questo non è il momento opportuno per chiedere permessi premio, anche se al mio cliente è già stata concessa la liberazione anticipata prevista dalla legge». La “liberazione anticipata” è l’istituto giuridico che porta alla maturazione di 45 giorni di permesso per ogni semestre trascorso da internato; Stevanin è in carcere da 11 anni e otto mesi,ossia da 23 semestri. Pertanto, ha tutte le carte in regola per accedere a questo istituto premiale. «Gli altri presupposti per beneficiarne», spiega infatti Dal Maso, «sono che si riconosca un ravvedimento compiutamente provato e che non si sia organici alla criminalità organizzata. Questi requisiti sono in possesso di Stevanin. Vi è infine la valutazione sulla pericolosità sociale ,che il Tribunale competente [quello dell’Aquila. ndr], depo di Claudia fu disseppellito in novembre, mezzo metro sotto terra nel giardino della casa di Stevanin, “impacchettato” in strati di pellicola da cucina, in avanzato stato di decomposizione. Fausta Mannarino, giornalista che oggi dirige la redazione di Forlì del quotidiano La voce di Romagna, all’epoca dei fatti era cronista a La cronaca di Verona e collaborava con la trasmissione della Rai Chi l’ha visto,proprio sui casi delle ragazze scomparse nel Veronese. Il giorno del rinvenimento del corpo di Claudia, ricevette una telefonata: «Hanno ritrovato uccisa una certa Pulejo: non è la ragazza di cui la madre aveva denunciato la scomparsa?», disse la voce all’altro capo del filo. «Era una domenica ed ero di turno», racconta Fausta. «La prima cosa che pensai fu di andare a Terrazzo. Parlando con le persone del luogo, mi dissero che gli Stevanin avevano un casolare di campagna. Decisi di andare a dare un’occhiata. Ero con la fotografa del giornale. Arrivati alla cascina, trovammo la porta aperta e decidemmo di dare un’occhiata in giro. Dentro non notammo nulla di strano, tranne alcune cassette per la frutta riposte sotto un tavolo e ricolme di riviste pornografiche. Conoscendo la storia per cui Stevanin era nel frattempo finito in carcere (le sevizie alla prostituta austriaca Gabriella Mugser, salvatasi con uno stratagemma), pensai di aver fatto cilecca. Mentre stavamo per uscire, rivolsi ancora l’attenzione a quelle cassette. Diedi un calcio per spostare le riviste e vennero fuori le schede su cui Stevanin annotava le caratteristiche delle modelle che avrebbero posato per servizi fotografici porno da vendere a una fantomatica Tower Production di Milano. «Le raccolsi, erano una quarantina, e mi precipitai al giornale. Nel tragitto, chiesi a una persona che era in auto con noi, di leggermi solo le intestazioni. Quando sentii pronunciare il nome di Claudia Pulejo il sangue mi si gelò». Arrivata al giornale Fausta consegnò il materiale nelle mani del direttore. “Sei pazza!”, disse. Ma il giornale uscì con il contenuto di quelle schede. Per Stevanin, furono coniate le definizioni più svariate: il “mostro di Milwaukee della Bassa Padana” come l’americano che conservava le sue vittime in frigo e aveva pure lui la faccia d’angelo. Ma anche il “Landru di Terrazzo”, come Henri Landru il francese, che 100 anni fa, bruciò nella stufa dieci signorine.

I cent’anni del chewin-gum (Gente febbraio 2006)

I cent’anni del chewingum
A voler strafare servono quattordicimila dollari. Se ci si accontenta, però, si può spendere qualcosa in meno. E con un po’ di fantasia, si può perfino considerare un affare: per circa 25 milioni di vecchie lire si riesce ad ottenere non un solo chewingum, ma un intero lotto di gomme “premasticate” dalla cantante americana Britney Spears. Quelle, dicono, che la popstar ha addentato durante la lavorazione del video di “Toxic”. Titolo e testo della canzone certo non incoraggiano l’acquisto dell’usato: “toxic”, infatti, sta per velenoso e il brano si chiude con le parole “sono intossicata adesso”. Sarà il caso, quindi, di affidarsi a una normalissima confezione di gomme ancora da masticare per festeggiare il centenario dell’invenzione del chewingum. Un secolo esatto, era il 1906, è trascorso, infatti, da quando lo statunitense Frank Henry Filler brevettò la bubble-gum, la gomma da masticare morbida, destinata all’epoca a rivelarsi un clamoroso flop: troppo appicicaticcia. Nonostante questo insuccesso, e a dispetto di altri padri nobili ai quali l’intuizione che l’umanità avrebbe gradito masticare gomma viene attribuita (dagli antichi Maya al solito farmacista americano), Filler è considerato il vero inventore del chewingum, come noi lo conosciamo. O, più precisamente: come pensavamo di conoscerlo. E sì, perché da fratello più giovane e sbarazzino della caramella, che procurava piacere non solo nell’addentarlo ma anche nel soffiarci dentro per ricavarne palloncini, il chewingum, come spiegano dall’ufficio marketing della Perfetti, uno dei maggiori produttori mondiali, “da prodotto edonistico è diventato un prodotto per così dire “funzionale”: contribuisce all’igiene orale, riduce la tensione e lo stress (non a caso tra i consumatori più incalliti ci sono gli sportivi), e nell’ultimo periodo, con l’imposizione del divieto di fumo in uffici e luoghi pubblici, ha sostituito sempre più la sigaretta”.
Quest’ultimo compito, in realtà, è stato assegnato al confetto da masticare già nel 1978, quando fecero la loro comparsa le prima gomme alla nicotina, destinate a non far entrare in crisi di astinenza i fumatori pentiti.
Diciott’anni ed è preistoria: già oggi è pronto il Viagra sotto forma di confetti da masticare che potrà essere prodotto e commercializzato solo nel 2011, anno di scadenza del brevetto della salvifica pillola. Il che potrebbe produrre, oltre che evidenti benefici sull’ars amatoria dei pazienti, apprezzati effetti sull’indotto odontoiatrico, dovendo gli arzilli destinatari del farmaco necessariamente provvedere a darsi una sistematina a ponti e protesi.
Intanto, in Giappone, un’azienda ha messo in commercio una gomma che potrebbe mettere in ginocchio il primato del silicone: masticarla aumenterebbe e alzerebbe contemporaneamente il seno. A Tokyo già va a ruba. Duecento tavolette costano solo trenta euro e la B2Up, l’azienda produttrice, sostiene che “su dieci donne che hanno utilizzato dieci tavolette al giorno per un mese, ben nove hanno avuto il seno incrementato di una o due taglie”. Tra le controindicazioni, la possibilità che il seno ritorni tale e quale dopo il sesto mese, e si renda necessario così ripetere praticamente all’infinito la pratica ruminatoria.
Per ora, quindi, dovremo accontentarci degli unici benefici certi, quelli per i denti, dovuti principalmente allo xilitolo, un elemento che in natura è contenuto in pere, fragole e prugne. “L’utilità dello xilitolo nella prevenzione della carie è ormai universalmente riconosciuto”, dice il dottor Franco Bruno, segretario culturale generale e responsabile prevenzione dell’Andi, l’associazione nazionale dei medici dentisti italiani. “Masticare gomma con xilitolo”, spiega ancora Bruno, “riducendo gli attacchi degli acidi, elimina la placca e rimuove i residui di cibo, mentre studi americani dimostrerebbero che proprio la masticazione di chewingum, più che lo stesso xilitolo, aiuterebbe in alcune infezioni come le otiti che in alcuni casi nascono dal cavo orale”. Chewingum promosso a pieni voti, allora? “Attenzione”, avverte il medico dentista, “non mastichiamone più di due o tre al giorno per evitare l’affaticamento dell’articolazione della bocca, e ai bambini diamolo solo dopo i 4-5 anni”.
Tutto sommato, dovremo quindi convincerci che masticare gomma faccia bene alla salute. Tanto da aumentare la memoria, secondo uno studio del 2003 dell’Università di Northumbria (Gran Bretagna):”E’ stato provato che durante la masticazione il battito cardiaco aumenta e viene prodotta più insulina che, agendo su recettori situati nella zona cerebrale dell’ippocampo, stimola questa struttura cruciale per la memoria”, fu il responso degli scienziati britannici. Su un campione di 75 volontari, i soli 25 che avevano masticato gomma durante l’esperimento mostravano “memoria breve e a lungo termine superiore del 35 per cento” rispetto a chi aveva solo mimato il gesto e a chi non aveva fatto nulla. Lo studio era finanziato, visto che si parla di memoria giova ricordarlo, da un’azienda produttrice di dolcificanti.
Un ricercatore americano della Mayo Clinic, James Levine, è andato oltre: ha avuto l’idea di calcolare quante calorie si bruciano masticando un chewingum. Arruolati sette temerari volontari, li ha costretti a masticare al ritmo di un metronomo: cento masticate al minuto, per dodici minuti. Il risultato ottenuto ha confermato la sua intuizione, nata dall’osservazione  dei ruminanti che bruciano circa il 20 per cento del loro introito calorico grazie proprio alla masticazione. Anche il metabolismo umano, grazie al chewingum, aumenterebbe del 20 per cento per un consumo di 11 calorie all’ora. “Dieci chili in dodici gomme (al giorno)” potrebbe presto fare la comparsa sul grande schermo.
Come per tutte le invenzioni, anche nel caso delle gomme da masticare, insieme alla gioia per i denti e il palato (e il fatturato delle aziende: 700 milioni di euro solo l’italiana Perfetti), sono arrivati i dolori. E non sono pochi. Ai primi posti in classifica il massacro delle più elementari regole della buona educazione. Sulla gomma da masticare sono rimasti “incollati” anche personaggi famosi. Romina Power, ma non è la sola, in un servizio tv sull’inaugurazione di una sua mostra, continuò a masticare gomma americana anche mentre rispondeva alle domande del giornalista, suscitando non poche critiche. C’è chi mastica tenendo la bocca aperta, chi lo fa mentre parla con qualcuno, chi la sputa, chi l’attacca sotto il banco di scuola.
Ma il problema più grave è un altro: il chewingum, se non si presta attenzione, diventa un pericoloso nemico dell’ambiente. Le gomme masticate, infatti, impiegano cinque anni per decomporsi e impiastrando marciapiedi, muri, monumenti, incorporano uno sporco di difficile rimozione. In Piazza Tienanmen, a Pechino, i soldati cinesi hanno dovuto staccarne uno ad uno 600 mila, mentre Singapore ne ha vietato l’uso (tranne che ai turisti) e l’Irlanda ha calcolato che il 28 per cento dell’immondizia che insozza le strade è proprio costituita da chewingum. Anche Londra ha fatto i suoi calcoli: oltre 300 mila chewingum finiscono sui marciapiedi della sola Oxford Street. E gli italiani? Come sempre, ci siamo attrezzati alla nostra maniera: mentre Cicciano, nel napoletano, è stato il primo comune in Italia a prevedere una multa fino a 200 euro per chi sporca con il chewingum, all’estero siamo famosi perché un’azienda tricolore è stata chiamata a ripulire dalle gomme la città di Valparaiso (Cile), dichiarata dall’Unesco patrimonio mondiale dell’umanità, dove ci sarebbe una media di otto chewingum per ogni due metri quadrati di marciapiede. Ma non godiamo delle sciagure altrui: secondo uno studio, dei giovani italiani tra i 14 e i 21 anni, il 61 per cento getta la gomma da masticare per terra. La media europea è del 38 per cento.

Gianfranco, campione italiano di lavoro precario (GENTE n. 15/2006))

da Brindisi Antonio Murzio

Correva l’anno 1970. Il sogno dell’undicenne Gianfranco Cagnazzo era quello di fare il calciatore. E guardando in televisione le immagini di Mazzola e Rivera, che si alternavano in azzurro nella staffetta dei mondiali di Mexico 70, pensava a chissà cosa avrebbe dato, lui, per essere in campo anche solo quarantacinque minuti. A trentasei anni di distanza, a Gianfranco, che nel frattempo è stato un discreto calciatore, anche di serie C, l’occasione di giocare l’equivalente di un solo tempo l’hanno offerta. Ma a proporglielo non è stata una blasonata società calcistica. Quarantacinque minuti è stato l’orario di lavoro che a lui, e ad altre sei persone, è stato offerto a partire dal primo gennaio di quest’anno, per continuare a fare quello che Cagnazzo faceva da oltre vent’anni: l’addetto alle pulizie nell’Arsenale militare di Brindisi. In pratica, l’operaio salentino, oggi 47enne, avrebbe dovuto lavorare, ogni giorno, per un tempo perfino inferiore a quello che serve per coprire il percorso da casa sua al posto di lavoro. Per una paga di poco più di 5 euro, naturalmente lordi, che a fine mese gli avrebbero consentito di portare a casa uno stipendio, netto in busta, di circa 80 euro, assegni familiari compresi. «Non mi sarei pagato neppure le suole delle scarpe», commenta amaro Cagnazzo, che, suo malgrado, è adesso assurto al simbolo di quella flessibilità del lavoro che per alcuni rappresenta la panacea contro la disoccupazione.
«Così anch’io sarei capace di creare milioni di nuovi posti di lavoro», ironizza. E oggi mantiene la famiglia (due figli di 22 e 20 anni) grazie a qualcosa messo da parte in passato. E per le spese di tutti i giorni, si provvede con lo stipendio della moglie Emira, un anno più giovane di lui.  Lei, in famiglia, è la “fortunata”: il suo orario di lavoro, come inserviente in una mensa scolastica, è di due ore. E ha ereditato una casa, per cui, «grazie al cielo», non ci sono mutuo o affitto da pagare. La spesa, intanto, la si fa «inseguendo le offerte, di supermercato in supermercato». Niente auto, di vacanze nemmeno a parlarne, «unico svago consentito la tv».
«Sembrerà un’assurdità ma io rispetto ad altri colleghi a cui è stata fatta la proposta dei 45 minuti di lavoro, sono fortunato. C’è chi ha figli piccoli e vive in casa in affitto. E magari si arrabatta andando a pesca e vendendo quel poco che riesce a tirare su», dice Gianfranco. Lui, che in tasca ha un diploma da ragioniere, intanto si arrangia come può: «La sera, alle undici, io e un altro mio ex compagno di lavoro andiamo a fare le pulizie in una palestra».
E sarebbe anche disposto a lasciare Brindisi, dove trovare lavoro, alla sua età, diventa impossibile: «Non ho potuto nemmeno presentare la domanda alla società britannica che gestirà il rigassificatore: sono ormai fuori quota», dice.
Lui e gli altri quattro che hanno rifiutato la proposta della cooperativa che si è aggiudicata i lavori di pulizia nell’Arsenale, un piccolo regalo l’hanno fatto. A lavorare, e a spartirsi il monte ore disponibile, ora sono i due colleghi rimasti: grazie alla rinuncia di Cagnazzo e degli altri, possono lavorare ognuno due ore e mezza al giorno. Paga: quindici euro, naturalmente lordi.
«Il Ministero della Difesa ha tagliato i fondi per gli Arsenali di Brindisi e Taranto», spiega Bobo Aprile, sindacalista dei Cobas di Brindisi, che sta seguendo la vertenza di Gianfranco, «e la cooperativa subentrata al precedente appaltatore ha pensato alla soluzione di dividere il monte ore complessivo per il numero dei lavoratori, giusto per non scontentare nessuno. Con il risultato di partorire una proposta indecente, offensiva della dignità umana, prima ancora di quella professionale di una qualsiasi persona», aggiunge il sindacalista.
«Quando ho comunicato la notizia in casa», ricorda intanto Cagnazzo, «insieme con mia moglie e i ragazzi non sapevamo se dovevamo ridere, pensando ad uno scherzo, o piangere per quello che ci stava accadendo. Quando ci siamo resi conto che anche ammalarsi, da quel giorno, in casa nostra sarebbe diventato un lusso da evitare, bè, potete immaginare il nostro stato d’animo».
«L’alternativa possibile», aggiunge, «era di piegare la testa e accettare, oppure di denunciare quanto accadeva, mettendoci la faccia. E siccome per via dei miei trascorsi sportivi e del mio impegno nel mondo calcistico minore, che continua tutt’oggi, a Brindisi sono abbastanza conosciuto, ho deciso di espormi io in prima persona, ben sapendo quello che sarebbe successo: attirare le critiche, anche di persone molto vicine, puntualmente piovutemi addosso dopo che la storia è stata resa pubblica. Ma, intanto, non si può continuare sempre e soltanto a subìre e a piegare la schiena: sono vittima di un mercato del lavoro dove si arriva all’assurdità di proporre un orario di quarantacinque minuti, e a vergognarmi dovrei essere io? Dovevo starmene buono e zitto? E perché mai? C’è qualcosa di male a pretendere di voler continuare a lavorare senza che venga calpestata la propria dignità di uomo, di padre, di marito?».

Quel banchiere di zio (i 75 anni del Monopoli)

Ridley Scott, il regista del “Gladiatore” e del più recente “American Gangster”, da tempo sta lavorando all’idea di ricavarci un film. Ma i rumors hollywoodiani non riescono ad anticipare come il grande film-maker possa rendere cinematograficamente la storia di un gioco che da settantacinque anni riesce a tenere incollati alle sedie dalle tre alle sette persone. Giocatori che in una sera possono perdere tutti i loro averi (e allora è colpa del dado, maledetta iella!) o diventare nel giro di poche ore grandi proprietari di case e alberghi, proprietari terrieri, possessori di quelle che ora vengono chiamate utilities – ma che tradizione vuole si chiamino società dell’acqua, del gas e dell’elettricità. E allora è tutto merito dell’abilità. E poco importa che, per accaparrarsi tutto quel po po di roba, si è lasciati al verde mogli o figli; se, mentre noi stiamo contando avidamente i nostri bigliettoni, il nostro migliore amico è ancora in compagnia di Jake “avanzo di galera (“Jailbird”, in inglese) dietro le sbarre. E’ il capitalismo, bellezza, e tu non puoi farci niente. E poi, diciamola tutta: in carcere non ci sono finiti anche immobiliaristi o banchieri ben più noti alle cronache? Danilo Coppola, Gianpiero Fiorani, Stefano Ricucci. Anche loro hanno provato il brivido della discesa infernale, dai circuiti della grande finanza alle patrie galere. Loro, però, ci hanno impiegato qualche anno, e perdere una banca o un patrimonio immobiliare reale, possiamo solo immaginarlo, farà molto più male che perdere la stazione Nord stampata su un tabellone colorato. E, poi, ci si può sempre consolare: nel caso di Ricucci, le sue disgrazie gli hanno fatto perdere l’Anna Falchi (a proposito, le ricordate le copertine dei rotocalchi prematrimonio: “Sposo Stefano solo per amore”?). A noi, comunque sia andata la partita, il letto matrimoniale continueremo a dividerlo con la persona che ci ha appena sbancato (in tal caso la chiameremo affettuosamente “Rumeniggae” per il mancato depilè alle gambe) e il saluto sulla porta allo zio depresso perché non ha mai vinto in vita sua, lo rafforzeremo con un sorriso ebete stampato sul volto, perché non ci siamo resi conto che il gruzzolo che è aumentato non è quello che avevamo in banca (ammesso che ci fosse), ma solo un mazzo di bigliettini colorati che ora ci tocca riporre nella scatola.
Venerdì scorso, era il 7 marzo, il Monopoli ha compiuto settantacinque anni, essendo stato “inventato” nello stesso giorno del 1933 da Charles Darrow, un ingegnere statunitense, che presentò la copia del gioco alla Parker Brothers. In una America travolta dalla Grande Depressione seguita al crollo di Wall Strett del 1929, l’ingegnere disoccupato aveva ricevuto da due amici la versione di un gioco molto simile a quello che di lì a poco avrebbe brevettato e pensò di presentarla all’azienda, che riscontrò, però, cinquantadue errori essenziali. Darrow non si perse d’animo e produsse in proprio 5000 copie del gioco. Newl 1935 alla Parker Brothers si resero conto che se un errore essenziale c’era stato, era stato il loro, e acquisirono i diritti. Cosa che permise a Darrow di ritirarsi in una pensione dorata, qualche anno più tardi, a soli 46 anni, e vivere di una cospicua rendita, dato l’enorme successo su scala mondiale del Monopoli.
Strade e piazze nella versione originale americana sono quelle di Atlantic City, nella versione italiana (dove il fascismo non vietò il gioco – come accadde nella Germania nazista dove Goebbels, ministro della propaganda, l’aveva ritenuto troppo giudaico-capitalista – ma si limitò a cambiare i nomi delle caselle: piazza della Vittoria divenne piazza del Littorio) si riferiscono a Milano. Perché fu prpprio nel capoluogo meneghino che l’editore Arnoldo Mondadori nel 1936, rifiutando l’acquisto dei diritti per il gioco in Italia, lo propose ad un suo giornalista, Emilio Ceretti che impiantò con due amici-soci (tra i quali William Toscanini, figlio del grande Arturo) la Editrice Giochi, che ancora oggi produce il Monopoli in Italia. Viale dei Giardini, nel gioco, è la via più cara, perché è proprio in quella via che Ceretti abitava pagando un affitto salatissimo.
La storia del Monopoli è piena di numeri e aneddoti: vietato in Unione Sovietica perché troppo capitalistico, “azzerato” a Cuba quando Fidel Castro salito al potere ordinò la distruzione di tutte le confezioni in circolazione, si calcola che in tutto il mondo diano state vendute più di 200 milioni di scatole e che più di 500 milioni sulla terra ci abbiano giocato almeno un a volta nella propia vita. Con qualche esagerazione: i banditi della famosa rapina al treno Glasgow Londra ingannarono il tempo nel loro rifugio, nelle prime 24 ore dopo aver messo a segno il colpo, giocando proprio a Monopoli. Con una variante più unica che rara: usarono come banconote quelle vere, circa due milioni di dollari, della rapina.
Anche la scienza ha fatto la sua parte: un appassionato del gioco racconta che alcuni anni fa è stato pubblicato su “Scientific American” un articolo che analizzava l’accesso ai vari terreni per mezzo delle teorie della catene di Markov. Matrici di transizione e calcolo delle probabilità hanno confermato che la casella in asoluto più frequentata è quella del transito-prigione, mentre le proprietà con il maggior numero di visite sono Largo Colombo e la Stazione Nord. Seguono piazza Dante e via Verdi.
Nei circuiti di appassionati del gioco è possibile trovare altri primati, non sempre protocollati: a Grrenlay, Colorado, nel 1974 otto ragazzi giocarono una partita sotterranea durata 100 ore. A Buffalo, sempre negli Stati Uniti, 350 sommozzatori si sfidarono in un torneo subacqueo che durò 1080 ore. Sempre in America, nel 1967, gli studenti dello Juniata College di Huntingdon (Pennsylvania) un gruppo di studenti giocò a Monopoli utilizzando le strade e i marciapiedi del campus. La tavola di gioco misurava 170 metri quadrati e i giocatori si muovevano con segnalino viventi che ricevevano le informazioni da messaggeri in bicicletta e radio ricetrasmittenti.
Ma perché il Monopoli ha avuto, e continua ad avere, tutto questo successo? Ecco le risposte fornite da un esperto in un forum: è facile da giocare, è solo poco più complesso del gioco dell’oca; ha regole semplici ma facilmente comprensibili, – direi quasi istintive – molto legate alla vita quotidiana. Comprare, vendere, pagare tasse avere imprevisti sono esperienze comuni a tutti, un po’ meno magari il finire in carcere;  consente di dare sfogo al proprio ego, battendo gli avversari (questa è una caratteristica comune a molti giochi, ma nel Monopoli è maggiore perché normalmente si gioca con parenti ed amici); vengono stimolati alcuni istinti base dell’uomo, come la cupidigia e la crudeltà. Non si può negare di godere parecchio quando un qualsiasi avversario fallisce!; è rassicurante, infatti per vincere ci vogliono sia abilità che fortuna. E mentre la prima è prerogativa del giocatore, la Fortuna è per definizione aleatoria. In caso di sconfitta si può sempre dare la responsabilità al fato, ai dadi, mentre in caso di vittoria si è autorizzati a complimentarsi con se stessi per l’abilità; stimola ed esercita la socialità. L’abilità – di cui si è detto prima – consiste nel sapersi ben relazionare con gli avversari, al fine di fare gli affari migliori. E questo comporta l’essere falsi. Un giocatore “limpido ed onesto” non sarà mai un buon giocatore. Bisogna saper nascondere le proprie vere intenzioni di gioco; è totale, nel senso che assorbe completamente il giocatore e lo proietta un mondo diverso, fatto di tanti soldi, case, terreni…. insomma un po’ quello che tutti sognano.
Come non dare ragione, allora, al finanziere di Luigi Barzini jr, citato nella terza pagina del Corriere della Sera? Scriveva il grande giornalista: “Il Vecchio Finanziere, in un salotto milanese, mi raccontò con tono di confidenza: – Da un momento all’altro fui travolto e persi tutto. E’ che non avevo denaro liquido. Avevo investito troppo in case, in alberghi, ed avevo dovuto sborsare una somma forte per una società di pubblica utilità che mi serviva. In breve, giunse la cattiva sorte, in pochi minuti la fortuna che avevo fatto tanta fatica ad accumulare mi venne portata via di sotto il naso. – E quanto ha perso in tutto? – chiedemmo. – Eh, – fece lui socchiudendo gli occhi come per fare un calcolo rapidissimo- venti lire. – E non cercate di rifarvi? – – No. Non mi ci metto più. C’è mio figlio che ha diciotto anni che mi spoglia completamente tutte le volte. C’è mia figlia che manovra con abilità, non si trova mai allo scoperto. Io preferisco il mio lavoro. E’ più quieto e più riposante”.

Antonio Murzio (pubblicato su “Il Quotidiano della Basilicata”

Luca e Marirosa venti anni dopo

MATERA – Non ce la fa a trattenere le lacrime, Olimpia Fuina, quando prende la parola per ricordare lo svolgersi di quella giornata, cominciata con la banalità del quotidiano e conclusasi con la percezione dell’eterno. La madre di Luca Orioli, che fu ucciso il 23 marzo di venti anni fa a Policoro insieme a Marirosa Andreotta, racconta così la prima impressione che ricevette nell’intravedere il corpo nudo del figlio. L’eterno. Quello che di lì ad oggi, «e per sempre», avrebbe dato la forza a questa donna minuta di combattere una battaglia alla ricerca della verità su un duplice omicidio che si era cercato di far passare come tragica fatalità. Una battaglia costellata di silenzi omertosi, di amici di Luca che sapevano e hanno taciuto, di scena del crimine inquinata, “allestita”, di sangue che sarebbe dovuto scorrere abbondante dai corpi dei ragazzi e del quale invece non si trova traccia. Di vicdepretori frettolosi e di altrettanto frettolosi medici legali che danno il nullaosta alla sepoltura basandosi sulla sola ricognizione del viso dei cadaveri. Di un perito di parte che rifiuta l’incarico offerto dai coniugi Orioli, «per non trovarsi immischiato in queste storie». Olimpia Fuina raccontato quest’ultimo episodio dal palco del teatro Comunale, in occasione dell’assemblea pubblica che “Libera”, l’associazione contro le mafie, di Basilicata ha organizzato per ricordare Luca e Marirosa, i “fidanzatini di Policoro” vent’anni dopo il duplice omicidio.
Volevano far passare tutto come un incidente capitato a  due ragazzi che stavano facendo l’amore nella vasca da bagno e che imprudentemente erano rimasti folgorati dal cattivo funzionamento di un caldo bagno, ma quella ferita sui genitali di Luca, dice Olimpia, «come avrebbe potuto consentirgli di fare l’amore?».
Trattiene i singhiozzi quando ricorda le difficoltà della battaglia per la verità portata avanti col marito Pino che oggi non c’è più e a consolarla è Gian Loreto Carbone, l’inviato della trasmissione “Chi l’ha visto?”, che ha portato la storia dei fidanzatini di Policoro all’attenzione del grande pubblico.
Carbone racconta di tutte le incongruenze dell’inchiesta iniziale, dell’autopsia fatta sui corpi dei poveri ragazzi solo otto anni dopo, di tante e tali buchi investigativi tesi a fornire all’opinione pubblica quelle “verità apparenti” che furono l’oggetto di un approfondimento giornalistico del Quotidiano il 14 febbraio 2007 e che avrebbero dato nuova stura alle indagini, contribuendo a far riaprire il caso, questa volta affidato al pm Rosanna Defraia della Procura di Matera…