di Antonio Murzio
Taurisano (Lecce), gennaio – E’ il killer invisibile che ogni anno uccide in Europa 58mila persone, settemila in più di quelle che perdono la vita in incidenti stradali. E’ il suicidio, quella imponderabile forza che arma la propria mano contro se stessi, la prima causa di morte nei paesi dell’Unione.
I risultati di una ricerca, pubblicati nel 2004 ma presentati ad inizio gennaio, parlano per l’Italia di 15 casi di suicidio ogni 100.000 persone. Ma c’è un paese che ha sconvolto ogni statistica. A Taurisano, centro del capo di Leuca, tredicimila abitanti, in meno di due anni, nove persone si tolsero la vita. Sette erano giovani.
Marcella B. decise di morire nel pomeriggio di un giorno di luglio del 2002. Serrò le porte al mondo nella palestra che aveva aperto dopo essere tornata al suo paese con un diploma dell’Isef in tasca. Adagiò su un tappetino il suo cellulare. Accanto vi posò la sua borsa. Con cura assicurò una corda alla catena che dalla trave reggeva i sacchi di allenamento. Pochi secondi dopo fu il buio. Solo leggendo il suo biglietto di addio gli altri si accorsero che, nonostante i suoi ventotto anni, Marcella aveva cominciato a morire molto tempo prima. «Non cercate la causa di questo mio folle gesto… c’è qualcosa che non va… ti senti sola, inutile, depressa, senti dentro di te il mal di vivere», scrisse prima di andarsene. Il giorno dopo tutti a Taurisano cominciarono a domandarsi il perché. A cercare una ragione all’impressionante sequenza di suicidi giovanili che stava colpendo il centro del Basso Salento. Marcella fu l’unica donna, e la più grande di tutti, di sette giovani taurisanesi che si arresero alla vita nel volgere di pochi anni. Cinque si erano consegnati alla morte come lei, un ragazzo diciassettenne si era rifugiato sul terrazzo di casa con il fucile del padre. Poi aveva premuto il grilletto. Tra dicembre 2001, quando si verificò il sesto caso, e luglio 2002, in paese anche due anziani decisero di togliersi la vita. Cosa stava accadendo a Taurisano? «Qualcuno cominciò a mettere in giro voci di sette sataniche e messe nere», racconta il vicequestore Domenico Bono, dirigente del locale commissariato, «ma non abbiamo mai trovato riscontri e tutti i casi sono stati archiviati come suicidi». Per capire, un parroco pensò di invitare anche «il prete della televisione». Don Antonio Mazzi venne, partecipò a un incontro organizzato nella parrocchia di Maria Ausiliatrice e parlò di disagio giovanile. Poi sui fatti scese il silenzio, a contrastare la vergogna del marchio.
«Venga pure in Comune, ma di quella storia non parlo», ci dice oggi al telefono Luigi Guidano, insegnante elementare e sindaco di Taurisano. Vorremmo cercare di capire quello che è successo. Il timore è che ogni anello della catena di suicidi possa unirsi a quello successivo per lo spirito di emulazione che spingeva i ragazzi a compiere il gesto di non ritorno. E la paura che un giorno il paese possa essere scosso ancora dalla notizia induce all’oblio. «Le confesso una cosa», dice ancora il vicequestore Bono, «l’ultima volta che è arrivata la notizia del ritrovamento di un cadavere ho quasi tirato un respiro di sollievo quando ho saputo che si trattava di un omicidio». Taurisano è terra di criminalità organizzata, roccaforte della quarta mafia, quella pugliese, la Sacra Corona Unita. Il caso ha voluto che il capo di uno dei clan locali più pericolosi portasse lo stesso cognome del patron dell’unica industria del paese. Un ex emigrante che, dopo aver venduto wurstel su un carretto per le città tedesche, è tornato nella sua terra, convinto che fosse arrivato il momento di fare il grande salto. Oggi la sua azienda dà lavoro a un centinaio di persone in un paese di tredicimila abitanti dove non esiste neppure un cinema. Cosa avevano in comune quei sette ragazzi? Adesso cominciano a chiederselo anche nelle tesi di laurea. Una prima risposta arriva da quella sul sociologo francese Durkheim e sui suoi studi sul suicidio. Dolores Ancora è la ragazza che l’ha realizzata. E la risposta è disarmante: Romeo, Rossano, Rosario, Giuseppe, Matteo, Ottavio e Marcella in comune hanno avuto solo l’epilogo della loro esperienza umana. Tranne due, neppure si conoscevano tra loro. Non frequentavano gli stessi ambienti, i loro destini non si erano mai incrociati. Tutti hanno lasciato poche righe, scritte nell’ultimo, disperato tentativo di giustificare al mondo la scelta triste del non ritorno.
«Per due di loro la causa fu una delusione d’amore», ricorda il vicequestore. «Su Marcella le voci che si diffusero in paese furono invece quelle di una diversità impossibile da vivere», spiega Luigi Montonato, professore di italiano e storia, che da ventitre anni dirige e cura Presenza taurisanese, l’unico giornale locale. Montonato, nel dicembre 2001, all’indomani del sesto caso, cercò, con molto coraggio, di fornire una sua interpretazione: «In questi ultimi venti anni Taurisano è stata al primo posto in provincia per tossicodipendenze; ai primi posti per morti violente; al primo posto per devianze minorili», scrisse. «Oggi si ritrova al primo posto per suicidi… Taurisano si connota da sempre per la violenza: è un paese violento. Quel che sta cambiando – e i tanti suicidi lo dimostrano – è il destinatario di quella violenza; è che questa violenza non è più esercitata solo verso l’esterno, ma anche all’interno, contro se stessi. Il suicidio si iscrive in una cultura di violenza, è l’atto di chi, incapace di sfogare l’istinto violento sugli altri, lo ritorce su se stesso». Seduto nel suo studio, ora il professore ricorda un episodio: «Venne a trovarmi una ragazza che conoscevo solo di vista e mi chiese di accompagnarla per scrivere un articolo e fare delle foto. Non mi disse però né di cosa volesse scrivere né quali foto io avrei dovuto scattare. Quando provai a chiederglielo, quasi scappò via. Non è mai più tornata e io ancora oggi continuo a chiedermi: cosa voleva dirmi quella ragazza? Dove voleva portarmi? Cosa avrebbe voluto mostrarmi?». Lui pensa che quella ragazza volesse mostrargli dei luoghi che in qualche modo avessero a che fare con la storia dei suicidi.
Anche Montonato non si arrende all’idea che non esista un filo conduttore delle morti per suicidio e, citando la regina del giallo Agata Christie, afferma: «Un indizio è un indizio, due indizi sono due indizi, tre indizi cominciano a essere una prova». Qualcuno ha parlato del ritrovamento, in una cava abbandonata poco fuori del paese, di una lista con i loro nomi e con il macabro annuncio della settima vittima, «che sarebbe stata una donna». Una lista che sarebbe stata rinvenuta proprio dal vicequestore e da un ispettore del commissariato di Taurisano. Ma Bono nega con forza: «È solo frutto della fantasia». Nella realtà restano sette croci sulle tombe di sette ragazzi. Non avevano mai letto Goethe e I dolori del giovane Werther, non conoscevano Foscolo e Le ultime lettere di Jacopo Ortis. Involontariamente sono entrati nella letteratura. Inconsapevoli attori della messa in scena, tragicamente reale, di Suicidi dovuti, un romanzo di Aldo Busi del 1996, ambientato in un piccolo paese della Lombardia. Sul risvolto di copertina, l’editore Frassinelli scrisse: «Come nel romanzo di Flaubert (Madame Bovary) si è portati a sospettare che “l’assassino era proprio il più insospettabile di tutti: il paesino in cui è ambientato quel giallo mozzafiato lì”».
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