Che strano, qui i ragazzi si arrendono alla vita (OGGI)

di Antonio Murzio
Taurisano (Lecce), gennaio – E’ il killer invisibile che ogni anno uccide in Europa 58mila persone, settemila in più di quelle che perdono la vita in incidenti stradali. E’ il suicidio, quella imponderabile forza che arma la propria mano contro se stessi, la prima causa di morte nei paesi dell’Unione.
I risultati di una ricerca, pubblicati nel 2004 ma presentati ad inizio gennaio, parlano per l’Italia di 15 casi di suicidio ogni 100.000 persone. Ma c’è un paese che ha sconvolto ogni statistica. A Taurisano, centro del capo di Leuca, tredicimila abitanti, in meno di due anni, nove persone si tolsero la vita. Sette erano giovani.
Marcella B. decise di morire nel pomeriggio di un giorno di luglio del 2002. Serrò le porte al mondo nella palestra che aveva aperto dopo essere tornata al suo paese con un diploma dell’Isef in tasca. Adagiò su un tappetino il suo cellulare. Accanto vi posò la sua borsa. Con cura assicurò una corda alla catena che dalla trave reggeva i sacchi di allenamento. Pochi secondi dopo fu il buio. Solo leggendo il suo biglietto di addio gli altri si accorsero che, nonostante i suoi ventotto anni, Marcella aveva cominciato a morire molto tempo prima. «Non cercate la causa di questo mio folle gesto… c’è qualcosa che non va… ti senti sola, inutile, depressa, senti dentro di te il mal di vivere», scrisse prima di andarsene. Il giorno dopo tutti a Taurisano cominciarono a domandarsi il perché. A cercare una ragione all’impressionante sequenza di suicidi giovanili che stava colpendo il centro del Basso Salento. Marcella fu l’unica donna, e la più grande di tutti, di sette giovani taurisanesi che si arresero alla vita nel volgere di pochi anni. Cinque si erano consegnati alla morte come lei, un ragazzo diciassettenne si era rifugiato sul terrazzo di casa con il fucile del padre. Poi aveva premuto il grilletto. Tra dicembre 2001, quando si verificò il sesto caso, e luglio 2002, in paese anche due anziani decisero di togliersi la vita. Cosa stava accadendo a Taurisano? «Qualcuno cominciò a mettere in giro voci di sette sataniche e messe nere», racconta il vicequestore Domenico Bono, dirigente del locale commissariato, «ma non abbiamo mai trovato riscontri e tutti i casi sono stati archiviati come suicidi». Per capire, un parroco pensò di invitare anche «il prete della televisione». Don Antonio Mazzi venne, partecipò a un incontro organizzato nella parrocchia di Maria Ausiliatrice e parlò di disagio giovanile. Poi sui fatti scese il silenzio, a contrastare la vergogna del marchio.
«Venga pure in Comune, ma di quella storia non parlo», ci dice oggi al telefono Luigi Guidano, insegnante elementare e sindaco di Taurisano. Vorremmo cercare di capire quello che è successo. Il timore è che ogni anello della catena di suicidi possa unirsi a quello successivo per lo spirito di emulazione che spingeva i ragazzi a compiere il gesto di non ritorno. E la paura che un giorno il paese possa essere scosso ancora dalla notizia induce all’oblio. «Le confesso una cosa», dice ancora il vicequestore Bono, «l’ultima volta che è arrivata la notizia del ritrovamento di un cadavere ho quasi tirato un respiro di sollievo quando ho saputo che si trattava di un omicidio». Taurisano è terra di criminalità organizzata, roccaforte della quarta mafia, quella pugliese, la Sacra Corona Unita. Il caso ha voluto che il capo di uno dei clan locali più pericolosi portasse lo stesso cognome del patron dell’unica industria del paese. Un ex emigrante che, dopo aver venduto wurstel su un carretto per le città tedesche, è tornato nella sua terra, convinto che fosse arrivato il momento di fare il grande salto. Oggi la sua azienda dà lavoro a un centinaio di persone in un paese di tredicimila abitanti dove non esiste neppure un cinema. Cosa avevano in comune quei sette ragazzi? Adesso cominciano a chiederselo anche nelle tesi di laurea. Una prima risposta arriva da quella sul sociologo francese Durkheim e sui suoi studi sul suicidio. Dolores Ancora è la ragazza che l’ha realizzata. E la risposta è disarmante: Romeo, Rossano, Rosario, Giuseppe, Matteo, Ottavio e Marcella in comune hanno avuto solo l’epilogo della loro esperienza umana. Tranne due, neppure si conoscevano tra loro. Non frequentavano gli stessi ambienti, i loro destini non si erano mai incrociati. Tutti hanno lasciato poche righe, scritte nell’ultimo, disperato tentativo di giustificare al mondo la scelta triste del non ritorno.
«Per due di loro la causa fu una delusione d’amore», ricorda il vicequestore. «Su Marcella le voci che si diffusero in paese furono invece quelle di una diversità impossibile da vivere», spiega Luigi Montonato, professore di italiano e storia, che da ventitre anni dirige e cura Presenza taurisanese, l’unico giornale locale. Montonato, nel dicembre 2001, all’indomani del sesto caso, cercò, con molto coraggio, di fornire una sua interpretazione: «In questi ultimi venti anni Taurisano è stata al primo posto in provincia per tossicodipendenze; ai primi posti per morti violente; al primo posto per devianze minorili», scrisse. «Oggi si ritrova al primo posto per suicidi… Taurisano si connota da sempre per la violenza: è un paese violento. Quel che sta cambiando – e i tanti suicidi lo dimostrano – è il destinatario di quella violenza; è che questa violenza non è più esercitata solo verso l’esterno, ma anche all’interno, contro se stessi. Il suicidio si iscrive in una cultura di violenza, è l’atto di chi, incapace di sfogare l’istinto violento sugli altri, lo ritorce su se stesso». Seduto nel suo studio, ora il professore ricorda un episodio: «Venne a trovarmi una ragazza che conoscevo solo di vista e mi chiese di accompagnarla per scrivere un articolo e fare delle foto. Non mi disse però né di cosa volesse scrivere né quali foto io avrei dovuto scattare. Quando provai a chiederglielo, quasi scappò via. Non è mai più tornata e io ancora oggi continuo a chiedermi: cosa voleva dirmi quella ragazza? Dove voleva portarmi? Cosa avrebbe voluto mostrarmi?». Lui pensa che quella ragazza volesse mostrargli dei luoghi che in qualche modo avessero a che fare con la storia dei suicidi.
Anche Montonato non si arrende all’idea che non esista un filo conduttore delle morti per suicidio e, citando la regina del giallo Agata Christie, afferma: «Un indizio è un indizio, due indizi sono due indizi, tre indizi cominciano a essere una prova». Qualcuno ha parlato del ritrovamento, in una cava abbandonata poco fuori del paese, di una lista con i loro nomi e con il macabro annuncio della settima vittima, «che sarebbe stata una donna». Una lista che sarebbe stata rinvenuta proprio dal vicequestore e da un ispettore del commissariato di Taurisano. Ma Bono nega con forza: «È solo frutto della fantasia». Nella realtà restano sette croci sulle tombe di sette ragazzi. Non avevano mai letto Goethe e I dolori del giovane Werther, non conoscevano Foscolo e Le ultime lettere di Jacopo Ortis. Involontariamente sono entrati nella letteratura. Inconsapevoli attori della messa in scena, tragicamente reale, di Suicidi dovuti, un romanzo di Aldo Busi del 1996, ambientato in un piccolo paese della Lombardia. Sul risvolto di copertina, l’editore Frassinelli scrisse: «Come nel romanzo di Flaubert (Madame Bovary) si è portati a sospettare che “l’assassino era proprio il più insospettabile di tutti: il paesino in cui è ambientato quel giallo mozzafiato lì”».

Storia di Salvatore Grasso, innocente (OGGI)

di Antonio Murzio

Catania – I film da incubo puoi vederli al cinema o in televisione. A Salvatore Grasso, cinquantatre anni, siciliano di Riposto, in provincia di Catania, è capitato di finirci dentro. Esattamente la sera del 13 agosto del 1986, quando in Germania, in una zona boscosa nei pressi di un’autostrada che porta a Colonia, venne ritrovato il corpo di Salvatore Calì, un emigrante siciliano, ucciso a colpi di pistola. Da quell’incubo Salvatore Grasso si è potuto risvegliare solo a diciotto anni di distanza grazie ad una lettera arrivatagli nel carcere di Brucoli, in provincia di Siracusa, dove ha trascorso, rinchiuso, gli ultimi undici anni della sua esistenza. La missiva, a firma di Agatino Di Bella, conteneva poche parole: “Ti chiedo scusa se non ho parlato prima, ma tu e Iuculano Cunga siete innocenti e sono disposto a dirlo ai giudici…”.
Di Bella, Grasso e Francesco Iuculano Cunga, tre isolani emigrati in Germania negli anni Ottanta, erano stati, fino all’ arrivo di quella lettera, considerati colpevoli in ugual misura dell’omicidio Calì e per questo condannati.
Per Salvatore Grasso le porte del carcere si sono riaperte il 2 febbraio scorso. Fuori, ad attenderlo, il fratello Carmelo che in macchina lo ha accompagnato a Giarre, a casa della madre Maria, 77 anni.
Ad aspettarlo non c’erano i suoi due figli. Non potevano. Sono morti entrambi, il più grande mentre loro padre, innocente, scontava la pena definitiva a ventisei anni di carcere, inflittagli dopo cinque gradi di giudizio e il vano tentativo di protestare la propria innocenza alla corte europea dei diritti umani. A Strasburgo il ricorso fu rigettato per decorrenza dei termini.
Rosario, a 24 anni, si è suicidato con l’ossido di carbonio. E Grasso considera questo suo figlio una vittima indiretta dell’ingiustizia: “Non ha retto alla vergogna, ed è lui che ha pagato il prezzo più alto.” Un altro figlio diciassettenne morì di aneurisma. Entrambi erano il frutto di un matrimonio non fortunato dell’ex agente immobiliare, con alcuni anni di brillanti studi di giurisprudenza alle spalle.
“Un uomo mite, una persona sana che comunque non appare rabbiosa contro la vita che finora gli ha tolto proprio tutto”, dice all’indomani della scarcerazione l’avvocato Dina D’Angelo, difensore, insieme al collega Puccio Forestiere, di Salvatore Grasso.
La giovane penalista di Augusta sottolinea come il suo assistito “costituendosi al carcere di Brucoli, undici anni, fa, ha preferito percorrere la strada della giustizia. Avrebbe potuto rimanere latitante ma ha scelto di non essere braccato, di percorrere la strada più giusta per un uomo rispettoso di tutte le leggi”.
E’ stata la fede di Grasso nella giustizia, incrollabile nonostante quello che gli stava accadendo, che lo ha spinto ad andare avanti. La fede in Dio lo ha sostenuto nei momenti più bui: “La morte violenta di mio figlio è stato uno strazio e io non mi sono impiccato solo perché sono credente”.
In carcere ha  imparato ad usare bene il computer ed alcuni programmi. Se ne è servito per realizzare un cd-rom in cui è contenuta tutta la sua vicenda giudiziaria, oltre alla sua storia personale: “Conoscevo una ragazza tedesca e ho vissuto un po’ con lei. Quando ad un tratto mi sono ritrovato coinvolto nel delitto del mio amico Giovanni. Ma io ero in un’altra città quella sera, come ha ripetuto ai giudici di Messina il teste.”
“Quel cd”, dice il fratello di Grasso, Carmelo, “ora è agli atti processuali. Mio fratello conta di prepararne un altro quando tutto sarà finito. Di più non posso dire, c’è ancora il procedimento di revisione in corso e per rispetto dei giudici, aspettiamo il 28 febbraio. Inutile cantare vittoria adesso.”
La cautele non sono solo sue. Dice l’avvocato D’Angelo: “La difesa, che naturalmente ha molto a cuore l’esito finale, rispetterà comunque tutte le decisioni della Corte”.
La data indicata dal fratello del protagonista di questa storia è quella in cui i giudici della Corte d’appello di Messina, su mandato della Cassazione, potranno finalmente scrivere la parola fine all’incubo di Salvatore Grasso. L’assoluzione è quasi certa, visti gli elementi nel frattempo acquisiti dalla difesa.
Finalmente la testimonianza di Paolo Samperi, il teste indicato dallo stesso Grasso nel suo cd-rom, sarà rivalutata alla luce della confessione resa nella lettera dal vero colpevole dell’omicidio. Samperi, anche lui all’epoca emigrato in Germania, la sera dell’omicidio parlò al telefono prima con la vittima, poi con Salvatore Grasso e l’altro imputato, Iuculano Cunga. Il numero di telefono della vittima e quelli di questi ultimi due corrispondevano ad utenze telefoniche di due città tedesche. Quelle città distavano tra loro duecento chilometri. Una distanza impossibile da coprire nell’arco di tempo tra l’orario della conversazione, verificabile dai tabulati della società telefonica e  quella dell’omicidio, stabilita con precisione dall’autopsia sul cadavere di Calì.
Il testimone chiave è stato rintracciato grazie al caparbio e paziente lavoro svolto dai difensori. Racconta ancora l’avvocato D’Angelo: “Samperi si era fatto avanti in un primo momento solo attraverso i familiari, poi finalmente si è deciso a parlare”.
La testimonianza è stata resa ai giudici di Messina, che nel fascicolo processuale di Salvatore Grasso adesso hanno anche la lettera che lo scagiona definitivamente.
All’uscita dal carcere l’ex immobiliarista, che adesso sogna solo davanti ad un computer, ha rilasciato le prime e uniche dichiarazioni sulla sua vicenda. “Non so dove ho trovato la forza di continuare a credere nella giustizia. Però, continuo a crederci. Anche se ho capito a mie spese che il giudice è solo un uomo e bisogna avere la fortuna di trovarne uno capace di rispondere alla propria coscienza. Gli atti di un processo sono sempre gli stessi solo che ogni volta sono stati interpretati in modo diverso. E’ stata una roulette in cui ho perduto un pezzo di vita e un figlio che nessuno potrà mai restituirmi.”. Poi attorno a lui si è creato un muro di protezione, eretto per volontà degli avvocati, a guardia del quale c’è il fratello Carmelo.
Perché dietro l’angolo, anche per Salvatore Grasso c’è il futuro: “Ho realizzato al computer la sigla di un telegiornale, spero magari di venderla ad una tv privata siciliana”, dice a chi gli chiede cosa l’aspetta domani.
“Tornerà piano piano a vivere anche se non sarà facile – dice ancora Dina D’Angelo, l’avvocato difensore, la cui sensibilità verso il caso umano di Grasso e il dramma del figlio suicida, sembra acuita da una recente maternità.
L’unico commento appena sopra le righe sfugge al fratello Carmelo quando dice: “Aspettiamo il 28 febbraio, dopo ci sarà da divertirsi”, risponendo alla domanda su cosa accadrà quando Salvatore sarà finalmente riconosciuto innocente e definitivamente scagionato.
Quel giorno i titoli di coda dell’incredibile film da incubo vissuto da protagonista da Salvatore Grasso scorreranno in un’aula del tribunale di Messina. Ma al cinema e in televisione una pellicola dura solo centoventi minuti. La tragedia di quest’uomo è durata diciotto anni, e al termine della storia non ci saranno applausi e standing ovation.
Rimarrà solo il rimpianto per la sua vita annullata e il rimorso per quella distrutta di un ragazzo di ventiquattro anni. Soffocato, prima ancora che dal gas di scarico della sua auto, dalla vergogna per un padre in carcere. Innocente.

ER, sorelline in prima linea (OGGI)

di Antonio Murzio

Riccione – Dopo l’avventura a lieto fine di cui è stata protagonista con la sorellina, Giulia, 11 anni, ha detto al papà che da grande vuole fare il medico, “perché ho scoperto che mi piace salvare le vite umane”.  “Poi – racconta sorridendo Gabriele Maestri, trentottenne imprenditore di Riccione – ci ha riflettuto un po’ su e ha cambiato idea: papà, forse è meglio se faccia la dentista, si guadagna meglio”.
Con la sorellina Cecilia, di otto anni, Giulia ha salvato la vita alla mamma, Barbara Bologna, di 40 anni, colpita, mentre era sola in casa con le bambine, da una lacerazione dell’aorta ascendente, accompagnata da una emorragia interna.
La prontezza di spirito delle due bambine è stata determinante. Giulia e Cecilia non si sono lasciate prendere dal panico ma hanno messo in pratica la lezione impartitagli più volte dal papà con tanto di esercitazioni pratiche: “Bimbe, se dovesse accadere qualcosa quando papà è fuori, per prima cosa chiamate il 118”.
Di ritorno dalla clinica di Codignola di Ravenna, dove la signora Barbara è ricoverata dopo l’intervento che l’ha salvata, Gabriele Maestri racconta: “Con Giulia e Cecilia avevamo fatto delle simulazioni telefoniche: loro dovevano comporre il numero di emergenza sanitaria e io da un altro telefono della casa, dopo aver staccato la spina, mi comportavo come se fossi un vero operatore, facendo domande su chi fosse l’ipotetico paziente da soccorrere, la sua età, i sintomi ed altro”.
Un’idea che a Maestri era balenata in mente dopo aver frequentato, presso la tipografia di famiglia, di cui è direttore commerciale, un corso di Basic Life Support (BLS), “una tecnica americana – spiega – di primo soccorso”. Il fatto di abitare in una zona piuttosto isolata l’aveva quindi convinto a trasferire in famiglia le nozioni acquisite, anche se apparentemente sembrava non essercene imminente bisogno.
“Mia moglie non soffre di alcuna patologia particolare – racconta l’imprenditore – ma qualche giorno prima che accusasse il malore mi aveva detto di avere dei dolori al petto, spiegandoli però con lo sforzo fatto per spingere lo slittino delle bambine sulla neve. E comunque in casa i pericoli sono sempre in agguato e io spesso, proprio come quel giorno in cui mia moglie è stata male, sono fuori per lavoro”.
Quando hanno visto la mamma accasciarsi sul divano perdendo i sensi, le sorelline “in prima linea” hanno dapprima scaldato le sue mani con le carezze e poi tentato di farla rinvenire prendendola a schiaffi.
Racconta divertito Maestri: “Da quello che mi hanno raccontato hanno effettuato anche un tentativo di respirazione bocca a bocca e un massaggio cardiaco, ma questo praticato …all’altrezza dell’ombelico! E meno male, altrimenti avrebbero potuto peggiorare la situazione.” Giulia ha per prima cosa telefonato ad alcuni vicini e, appena chiusa la conversazione con questi, che hanno allertato il 118, ha chiamato i nonni.
A otto e undici anni, quando si combina “qualcosa di buono” ci si aspetta un premio. “Le bambine – dice commuovendosi Gabriele Maestri – il più bel regalo l’hanno avuto dalla Madonnina: la loro mamma è ancora con loro. Anche se, vista la maturità dimostrata da Giulia, abbiamo dovuto cedere alla sua richiesta di un telefonino tutto suo, facendogli usare il mio cellulare di riserva”.
“E da questa storia, per quanto mi riguarda – conclude – ho avuto la conferma che Dio esiste”.
La certezza, per tutti gli altri, è che Barbara Bologna è stata salvata dai suoi due angeli di otto e undici anni che in ospedale le hanno consegnato un disegno con la scena del malore e un angioletto con su scritto: “Mamma, ma dove vuoi andare?”.

Napoli, il grido di Fo (OGGI)

Napoli, maggio – “The show must go on”, lo spettacolo deve andare avanti. Per tutti gli artisti è la regola aurea: qualsiasi cosa accada nella sfera privata, non si annulla una esibizione. C’è il pubblico in sala, si alzi il sipario. Per le lacrime rimane l’intimità del camerino.
Mercoledì 4 maggio è toccato a Dario Fo. Andare in scena al Teatro Augusteo di Napoli il giorno dopo la tragica morte del suocero di suo figlio Jacopo. Calcare il palcoscenico a poche centinaia di metri dalla banca nella centralissima via Toledo dove due balordi, il giorno prima, hanno visto l’ingegnere Emilio Albanese, 69 anni, prelevare 3200 euro. E dopo averlo seguito, rapinato e ucciso nell’androne di casa, in un palazzo che affaccia sull’Accademia delle Belle Arti.
Dario Fo ha voluto andare così. Perché, per il 79enne premio Nobel italiano, l’arte è inscindibile dall’impegno sociale. Così, anche nella tragedia che lo ha duramente colpito per la perdita di un “amico”, ha trovato la forza per gridare ai napoletani di non arrendersi.
“Guai a lasciarsi andare” – ha detto il regista e attore al pubblico che gremiva l’”Augusteo”, dove era stato invitato per festeggiare i trent’anni di una formazione folk, “Le nacchere rosse”. “Guai a dimenticare” – ha detto Fo, riprendendo proprio le parole di una sua conversazione con il consuocero ingegnere – “e a non indignarsi. Guai ad accettare la logica che le cose sono così e non possono cambiare”.
Nella città partenopea il regista si dice oggi “pronto a ritornare in ogni momento”.
Quando l’ingegner Albanese, padre di sette figli, è andato all’appuntamento con la morte, Dario Fo si trovava già a Napoli, per lo spettacolo in cui si sarebbe esibito con numerosi amici musicisti. Tutti insieme per un omaggio a Salvatore Alfonso, detto “Scià Scià”, vera anima delle “Nacchere rosse”, una formazione nata nel comprensorio operaio di Pomigliano d’Arco negli anni Settanta.
Appresa la notizia della tragica rapina, sono stati i musicisti i primi a chiedere a Fo di annullare l’appuntamento dell’”Augusteo”. “Ho recitato quando è morta mia madre, vado in scena anche adesso”, è stata la risposta del grande drammaturgo. Tra canti nei vari dialetti italiani e le sue emissioni vocali caotiche (i famosi grammelot), Fo ha trovato il tempo per dedicare un pensiero ad un’altra “mazzata” (così aveva definito anche l’uccisione dell’ingegner Albanese), arrivata nello stesso giorno: la chiusura definitiva del processo, senza colpevoli, per la strage di Piazza Fontana. Al termine dello spettacolo un ragazzo si è avvicinato per chiedergli un autografo sul copione di “Morte accidentale di un anarchico”, la sua opera del 1970 sul caso Pinelli, il ferroviere misteriosamente “caduto” dalla finestra della questura milanese durante le prime indagini sulla bomba alla Banca nazionale dell’agricoltura. Fo ha trovato il tempo per una delle sue fulminee e graffianti battute: “Non si sa da che pianeta è arrivata questa bomba!”. Poi ha raggiunto il camerino. Tolti gli abiti di scena, ha indossato il suo completo di lino beige chiaro e con l’inconfondibile panama calato sulla testa ha risalito a piedi via Toledo, seguito a passo d’uomo da una volante della polizia. L’artista si era fatto da parte. Al suo posto, un distinto signore che il mattino dopo avrebbe partecipato ai funerali di un caro amico. Anche Franca, sua moglie, era a Napoli. La signora Rame, compagna nella vita e nel lavoro del “maestro”, era atterrata in mattinata all’aeroporto di Capodichino. Per la prima volta ha avuto paura di Napoli. “E’ una città dove vengo da una vita ma questa volta ho sentito addosso la morte e il terrore”, ha detto. Anche Franca Rame era molto amica del padre di Eleonora, che ricorda come “una persona fragile, un uomo minuto e mite”. Prima di infilarsi nel portone di via Costantinopoli, dove vive la famiglia Albanese, ha sperato: “Aspetto di svegliarmi e scoprire che non è vero niente”. Poi, alla speranza, è subentrata la consapevolezza della perdita: “E invece so che il mio amico è morto solo perché aveva dei soldi in tasca”.
Per Jacopo, il figlio della coppia Fo-Rame, l’omicidio del suocero è stata l’occasione per denunciare: “Il problema non è Napoli. Credo nelle persone, comincino con il contestare che non c’è certezza del diritto. Le leggi sembrano studiate apposta per non funzionare. Come può uno prendersela con i napoletani che se vedono qualcosa non parlano? Il giorno dopo sarebbero morti che camminano!”.
Parole che hanno trovato un’amara conferma nell’esperienza vissuta nelle stesse ore da un altro artista, il tenore cileno Tito Beltran. A Napoli per il “Rigoletto” in cartellone al teatro “San Carlo”, l’artista sudamericano è stato rapinato in un ristorante che si trova in una stradina  a ridosso di via Toledo. Mentre i rapinatori, a volto coperto e armi in pugno, gli portavano via un Rolex d’acciaio del valore di quarantamila euro, nel ristorante, proprietario, camerieri e pizzaiolo svanivano nel nulla. Beltran è tornato il giorno dopo per chiedere perché non avessero chiamato la polizia. “Voi turisti andate via da Napoli, noi invece ci rimaniamo e se qui non obbediamo ci incendiano il locale”, gli ha risposto il proprietario del ristorante.
Beltran, che vive in Svezia, è il tenore delle cerimonie per la consegna dei premi Nobel. Cantò anche quando quello per la letteratura fu assegnato nel 1997 a Dario Fo. I destini dei due artisti si sono di nuovo incrociati. Beltran, però, a differenza di Fo, ha detto che non tornerà mai più a Napoli.

Il tesoro di Capitan Ciccio (OGGI)

di Antonio Murzio

Mazara del Vallo (Trapani), maggio – Se chiedi a capitan Ciccio in che giorno le reti del suo peschereccio issarono a bordo la statua, lui ti risponde: “Il giorno di Lucio Dalla, il 4 marzo”. Ma nella canzone Dalla può riferire solo dicerie sul “bell’uomo che veniva dal mare”. Francesco Adragna, per tutti “Capitan Ciccio”, invece, il 4 marzo del 1998 il suo “bell’uomo”, nelle fattezze bronzee di un Satiro danzante del IV secolo a.C., se l’é trovato faccia a faccia. Un incontro che solo ora, a distanza di sette anni, si può dire fortunato per il cinquantenne pescatore mazarese. Insieme agli otto uomini del suo equipaggio di allora, finalmente capitan Ciccio riceverà dalla Regione una ricompensa. L’annuncio é stato dato dall’assessore regionale ai beni culturali della Sicilia, Alessandro Pagano. A Mazara per l’inaugurazione della mostra “Aspettando il Satiro” (la statua originale é attualmente in trasferta in Giappone per l’Expo 2005), Pagano ha anticipato ai microfoni dell’emittente mazarese Teleotto l’entità del premio. Agli autori del ritrovamento spetteranno tra i quattro e i cinque milioni di euro, in base al valore attribuito da un perito alla statua, che fu ripescata a sessanta miglia al largo di Mazara in  acque internazionali. Per la divisione del premio, é deciso, i marinai rispetteranno il codice del “pescato”: all’armatore del “Capitan Ciccio”, Toni Scilla, andrà il cinquanta per cento; ad Adragna, in qualità di capitano, la metà dell’altro cinquanta per cento; il resto del premio sarà diviso tra i membri dell’equipaggio in proporzione al “grado” (nostromo, macchinista, ecc.). Dall’annuncio ad oggi, la vita di capitan Ciccio Adragna, che solca i mari da quando aveva quindici anni, non è cambiata. E non cambierà, almeno nelle sue intenzioni. “Quando l’assessore Pagano ha parlato in televisione – dice – io ero a pesca e, fino a quando non vedo il decreto, rimango cauto. La notizia l’ho appresa solo dai giornali, non ho ancora ricevuto nessuna comunicazione ufficiale”. Capitan Ciccio ora ha una sua società e un suo peschereccio, battezzato “Prassìtele”, in onore di uno scultore greco dello stesso periodo del Satiro. Nel porto nuovo, dove il suo motopesca è attraccato, qualche vecchio collega ne pronuncia il nome sbagliando l’accento. Lui, che a scuola c’è andato solo fino alla terza media, subito lo corregge. Se gli chiedi, intanto, cosa farà con un milione e duecentocinquantamila euro – a tanto ammonta all’incirca la sua parte di ricompensa – serafico minimizza: “Una crociera con mia moglie. Una settimana sul Mediterraneo, per festeggiare i venticinque anni di matrimonio”. Altra priorità, le figlie da sistemare. “Ho tre ragazze, di 23, 20 e 18 anni: le prima è parrucchiera, la seconda fa l’estetista, la più piccola intende continuare gli studi”, spiega. Il suo racconto viene interrotto dalla chiamata sul cellulare proprio di una delle figlie. “Mi ha chiesto di portare per pranzo un chilo di vongole – riporta divertito dopo aver chiuso il telefono -, ma dico io: con quattro femmine in casa sempre ‘sto fesso si deve preoccupare di comprare il pesce?” Sbaglia, però, chi pensa che il suo buonumore si debba alla notizia della maxi ricompensa. Capitan Ciccio, raccontano a Mazara, è uno che sin da ragazzino, ai tempi in cui faceva il mozzo di bordo, è sempre stato gioviale e disponibile con tutti. E proprio a lui, che nella pacifica marineria da pesca ha trascorso l’intera esistenza, è toccato combattere a terra una lunga battaglia legale. Lui e gli altri pescatori da una parte, la Regione Sicilia dall’altra. Per l’ente, che inizialmente negava addirittura il diritto alla ricompensa, il valore della statua si sarebbe dovuto fissare ad un miliardo e settecento milioni delle vecchie lire, molto meno dei circa dieci miliardi ora stimati. Nel corso di questi anni non sono mancati per Adragna alcuni momenti difficili: “Sono stato anche indagato”, racconta. “Dopo il ripescaggio del Satiro, mi si volevano attribuire intenzioni che non ho mai avuto, come quella di vendere la statua a collezionisti privati. Per fortuna – cita in dialetto un proverbio siciliano – “aria pulita non ha paura che tuoni”: così io ho sempre avuto la coscienza a posto”. “Quando l’equipaggio imbragò nelle reti il Satiro” – capitan Ciccio rivive con enfasi quei momenti – “io ero alla radio, a scambiare chiacchiere con il comandante di un’altra imbarcazione. Mi precipitai fuori dalla cabina, richiamato dalle grida dei miei uomini. Ricordo la statua, piena di fango, che pian piano riemergeva dalle acque. Il Satiro veniva su, sembrava mi guardasse. Un anno prima, nel 1997, avevamo recuperato solo la gamba, finalmente ritrovavamo il resto. Avvertire via radio la Capitaneria di Porto fu la prima cosa che feci”. A Mazara, in seguito, al Satiro è stato dedicato un museo. Oggi é possibile anche per i non vedenti apprezzare l’opera, grazie ad un apposito percorso dotato di pannelli in alfabeto Braille. Una copia in dimensioni reali del bronzo può essere usufruita col tatto. Una scelta molto apprezzata da Capitan Ciccio, che è diventato l’eroe di questa cittadina dell’estremo lembo occidentale della Sicilia. Un eroe a volte dimenticato: “Quando il Satiro fu esposto a Montecitorio, nel suo discorso inaugurale il presidente Ciampi ringraziò tutti tranne noi pescatori. Allora presi carta e penna, gli scrissi una lettera e la spedii al Quirinale. So che è arrivata a destinazione perché mi sono informato tramite le Poste. Mai ricevuto una risposta, però. Niente, nemmeno un rigo. Sono infuriato per questo: si può dire?” Ad Adragna e al suo equipaggio si deve anche il ritrovamento di un altro reperto bronzeo, una zampa d’elefante, conservata nel Museo del Satiro. Ma non è nelle intenzioni di capitan Ciccio dedicarsi a tempo pieno alla ricerca di tesori sottomarini. “I fondali del Canale di Sicilia sono un vero forziere e spesso nelle reti usate per la pesca a strascico, insieme a gamberi, seppie, triglie e merluzzi, tiriamo su pezzi di anfore”, spiega, “e questo per noi pescatori è normale”. Poi chiosa: “Ma di qui a scrivere, come qualcuno ha fatto, che sarei pronto a nuove avventure ce ne passa. E chi sono, capitan Findus?”.

Suor Cristina, filo diretto con il Papa (OGGI)

di Antonio Murzio

Angri (Salerno), giugno
Suor Maria Cristina Marinelli ha pianto ancora. Ma almeno questa volta le sue non sono state lacrime di dolore per un male incurabile che ormai la costringe su una sedia a rotelle. La religiosa, 44 anni, origini pugliesi, nella sua cella del convento delle Battistine, ha pianto come una bambina quando ha ricevuto il regalo più bello ed inaspettato che potesse arrivarle: una telefonata di papa Benedetto XVI. Il Santo Padre le parlava dal cellulare che Emilio Testa, un grande amico di suor Maria Cristina, era riuscito a passare al Pontefice durante l’udienza generale di mercoledì 15 giugno, infrangendo il rigido protocollo vaticano che impone telefonini spenti alla presenza del Papa.
Ma Emilio Testa, prossimo ai cinquanta, disabile dall’età di diciassette anni dopo un tuffo fatale in piscina, ad Angri è conosciuto da sempre per la sua determinazione e la sua forza d’animo. Moglie e due figli, è stato per quattordici anni assessore comunale ai servizi sociali ed ancora oggi è consigliere comunale. La sua immagine mentre passa il telefonino a Papa Ratzinger passerà alla storia: le riprese televisive hanno fatto il giro del mondo e, dopo la sua sortita, è sicuro che d’ora in poi in Vaticano saranno intensificati i controlli per evitare il moltiplicarsi di fedeli che cercano di passare chiamate al successore di Giovanni Paolo II.
Il giorno dopo, Emilio si è recato a trovare suor Maria Cristina, ancora a letto con una febbre molto alta che la sta debilitando più dei cicli di chemioterapia a cui periodicamente deve sottoporsi.
“Certo che abbiamo combinato un macello, ci siamo detti ridendo”” racconta Testa, mentre per le strade di Angri gli piovono letteralmente addosso baci e complimenti dalle signore che l’hanno visto in tv.
“A causa della febbre Maria Cristina non ha potuto essere con noi a Roma dal Santo Padre. Allora, prima di partire, le ho promesso che quando saremmo stati al cospetto del Pontefice, l’avrei chiamata sul suo cellulare per farle ascoltare le parole del Papa. Gesto premeditato quello di passare il mio telefonino a Benedetto XVI? Assolutamente no -, prosegue divertito il suo racconto Testa, che continua: “L’idea mi è venuta sul momento, proprio quando la sicurezza vaticana ci ha imposto di spegnere i telefonini. Senza chiudere la conversazione con Maria Cristina, ho lasciato cadere sulle mie gambe l’apparecchio e quando sono arrivato vicino al Papa gli ho detto di una suora malata che non era potuta venire con noi. Nel momento in cui Benedetto XVI mi ha pregato di salutarla, ho colto l’occasione per dirgli che era in linea in quel momento, e ho detto al Santo Padre: “Santità, c’è una suora molto malata che aveva espresso il desiderio di incontrarla, ora è all’altro capo del telefono, vuole che gliela passi? Il Papa mi ha sorriso, ha preso il mio cellulare e ha cominciato a parlare”.
Emilio, che non potrà mai più dimenticare il momento in cui la sicurezza cercava senza successo di spostare la sua carrozzina, che lui aveva reso inamovibile grazie al trucco dell’innesto del blocco meccanico di cui la sua sedia a rotelle è dotata, ricorda una per una le parole del Santo Padre: “Ciao, suor Cristina – ha detto Papa Ratzinger – mi è dispiaciuto tanto sapere che non stai bene. So che saresti voluta venire anche tu qui oggi. Io pregherò per te e ti ricorderò continuamente nelle mie preghiere, sapendo quanto stai soffrendo. Ti benedico, stai tranquilla nel nome del Signore”.
Nella piccola cella del convento di Angri, a quel punto, sul suo letto, suor Maria Cristina ha cominciato a piangere di gioia ed emozione.
Dietro il suo fisico, reso ancor più minuto dalla devastazione del cancro, però, continua a battere il cuore forte di una religiosa che ha speso tutta la sua esistenza per gli altri, soprattutto i più deboli.
Suor Marinelli è, infatti, presidente della sezione angriese di una associazione, “Granello di senape”, che si occupa, attraverso un consultorio familiare, soprattutto di sostegno a ragazze madri e di assistenza alle immigrate con il progetto “Multicolored”, in una zona, quella dell’agro nocerino-sarnese che vede la presenza di numerose donne extracomunitarie impegnate nei campi. Il giorno dopo il bellissimo regalo che Emilio Testa le ha fatto ha giusto la forza per raccontare con voce flebile per telefono la sua esperienza unica: “Pensavo di sognare ad occhi aperti. Poi, mentre il Papa parlava ho riconosciuto la voce, con la sua inflessione tedesca e ho pensato: ma guarda Dio come è capace di guidare gli uomini”.
“Sono convinta – dice suor Maria Cristina, ancora febbricitante – che è stato un segno improvviso della potenza di Dio che ha voluto mostrare come anche un telefonino, nella apparente banalità dell’uso quotidiano, può diventare uno strumento di speranza. Dio non abbandona mai gli uomini, anche nella dura sofferenza.”  Meno che mai proprio lei, una persona che ha sempre avuto una parola di conforto per tutti e che spiegava ai ragazzi della sua associazione che ci sono momenti nella vita in cui ci si trova di fronte a delle situazioni davvero difficili, a dei problemi che appaiono insormontabili e che non è facile superare senza l’aiuto di qualcuno che possa dare un consiglio da esperto o che è semplicemente disposto ad ascoltare. Per chi vive un disagio, tuttavia, non è sempre facile chiedere aiuto e così nel suo smarrimento finisce con il cercare lontano risposte che potrebbe trovare a portata di mano”.
Suor Maria Cristina è sempre stata, nella sua opera quotidiana, quanto di più lontano di possa immaginare dallo stereotipo di suora. Dall’8 novembre al 13 dicembre 2004 aveva promosso con il “Granello di senape” il progetto “Essere se stessi per essere”. Durante gli incontri aveva parlato ai ragazzi di corpo, di contraccezione, di amore, di malattie sessualmente trasmesse.
“Molti degli adolescenti che vi presero parte”, raccontano Rossella Grimaldi e Antonella Giacomaniello, due studentesse liceali, “alla fine di quell’esperienza dissero che grazie a quanto avevano appreso non avrebbero fatto più scelte sbagliate”. Grazie alle parole di suor Maria Cristina, una suora eccezionale alla quale è stato riservato l’eccezionale regalo di un papa che nel bel mezzo di un’udienza generale, sul suo cellulare la saluta, come si fa tra amici.

Il vero volto di Babbo Natale (OGGI, dicembre 2004)

di Antonio Murzio

BARI, dicembre – Babbo Natale? Dimenticate il volto tondeggiante e rubicondo con la lunga barba bianca al quale siamo abituati: non gli appartiene. Il vero Santa Claus aveva una carnagione olivastra, capelli radi (e non una bianca chioma fluente), naso storto e mascella pronunciata. “Un tipo”, ha dichiarato l’antropologo inglese Anand Kapoor ad un giornale britannico, che a vederlo “in salotto la notte di Natale verrebbe istintivo tirare fuori la pistola”.
In realtà il volto ricostruito dagli scienziati inglesi dell’Università di Manchester è quello di San Nicola, vescovo di Myra e patrono della città di Bari, dove si erge una splendida basilica a lui dedicata.
“E non userei parole come quelle del collega inglese” – precisa subito il professor Francesco Introna, direttore della clinica di Medicina legale dell’Università di Bari, unico italiano che ha partecipato alla studio promosso dall’Atlantic Production di Londra per la realizzazione del documentario “The real face of Santa” (“Il vero volto di Santa Claus”), andato in onda sabato 18 dicembre sul secondo canale della BBC.
Introna, 49 anni, antropologo forense, è stato coinvolto nella ricerca da un “insospettabile” collega, il colonnello Luciano Garofano, comandante del Ris dei carabinieri di Parma: “Fui contattato a giugno e Luciano mi  prospettò di partecipare alla realizzazione di un documentario scientifico-religioso che gli inglesi intendevano realizzare.”
“L’intento degli autori – continua Introna – era quello di capire cosa ci fosse dietro il fenomeno Babbo Natale. Dal canto mio l’ho vissuta come una possibilità di sgombrare il campo da mille equivoci e confermare che Babbo Natale trova origine in San Nicola. Il vecchietto paffuto, vestito di rosso e bianco che conosciamo si deve solo ad una trovata pubblicitaria della Coca Cola agli inizi degli anni ’30.”
Per ricostruire il volto di Santa Claus, i ricercatori sono partiti da uno studio condotto nel 1953 da un altro medico barese, il professor Luigi Martino.
“In occasione dei lavori di ristrutturazione della cripta che contiene i resti di San Nicola – spiega Introna – Martino ebbe la possibilità di esaminare le ossa del santo. Riportò le misurazioni che aveva effettuato sul cranio e ne sviluppò i disegni in tre dimensioni, una tecnica che si sarebbe diffusa solo molti anni più tardi con l’avvento dei computer.”
La lungimiranza di quel medico ha contribuito in maniera determinante al risultato odierno: “Martino, da radiologo, avendo le ossa a disposizione pensò bene di fare delle radiografie” – continua Introna. Che aggiunge: “Se i disegni potevano presentare qualche dato errato, le lastre hanno rappresentato un dato oggettivo sul quale lavorare”.
Ed è proprio sui tratti evidenziati in quelle radiografie che, con l’ausilio di un potente programma, gli scienziati inglesi hanno ricostruito al computer il volto di San Nicola-Santa Claus.
E se per l’antropologo inglese lo choc del risultato è stato tale da indurlo a pensare eventualmente di ricevere un siffatto Babbo Natale armato di pistola, per il medico legale barese la sorpresa è stata quella di trovare un volto completamente diverso da quello di solito rappresentato nell’iconografia di San Nicola. Introna, infatti, è anche un  cultore della storia del vescovo di Myra e ha coniugato l’interesse scientifico alla passione personale per il santo.
E’ quindi lo stesso professore a spiegarci come nasce il mito di Santa Claus legato a San Nicola: “La leggenda vuole che per aiutare tre sorelle poverissime altrimenti destinate alla prostituzione, Nicola, per due notti consecutive, gettò un sacco di monete nella casa delle ragazze in modo da costituire per ognuna di loro una dote. La terza notte, trovando tutte le finestre chiuse, fu costretto ad arrampicarsi sul tetto, dove fu visto ma non riconosciuto, e calare le monete dal camino”.
Un miracolo, quello delle “tre doti” che ancora oggi porta li 6 dicembre, giorno di San Nicola, centinaia di ragazze in età di marito a partecipare alla messa celebrata in basilica alla quattro del mattino.
La “vera faccia del santo”, quella mostrata nel documentario della BBC, è di un uomo dall’apparente età di 65-70 anni, alto all’incirca 1 metro e settanta – e quindi più della media di quel tempo -, d’origine caucasica.
“Questo spiega – dice ancora Introna – il colorito olivastro. Il naso storto è dovuto ad una frattura presente nelle ossa nasali, mentre l’espressione austera del volto la si può spiegare con la tradizione che parla di un San Nicola mentalmente e fisicamente forte”.
I resti del vescovo di Myra furono sottratti ai turchi da 62 marinai baresi e il nome di San Nicola è legato alla marineria: sulla prua delle navi degli emigranti olandesi diretti in America c’era proprio la sua immagine, quella di “Sinter Klaas”. Nel 1809 un libro edito a New York parlava di “Sancte Claus”, un vescovo che la notte di Natale, in groppa ad un cavallo bianco, solcava i cieli per portare doni ai bambini.
“Le nuove generazioni – conclude il professor Introna – saranno portate a scindere sempre più la figura di Babbo Natale da quello di San Nicola e questo sarà un male, perché andrà persa la vera tradizione legata a Santa Claus”.