Storia di Mimmo, che sogna Buffon (VISTO, dicembre 2004)

di Antonio Murzio

Lizzano (Taranto) – Le lucine colorate corrono ad intermittenza sull’albero di Natale nel soggiorno di casa Zecca. Il loro spegnersi e subito riaccendersi sembra quasi la rappresentazione dello stato d’animo di Mimmo, sedici anni, e dei suoi genitori: al buio della notte, al rumore di lamiere, allo strazio di un braccio staccatosi di netto nell’incidente tra due treni la notte del 2 dicembre, ecco seguire finalmente un po’ di serenità e buonumore.
Complice forse una misteriosa Valentina, ventiquattrenne ex modella torinese, vittima anche lei di un incidente in cui ha perduto un braccio, che ha scritto una lettera allo sfortunato adolescente: “Fatti coraggio, la vita continua”, accompagnandola con una foto in cui è ritratta sorridente con la protesi impiantatale a Budrio, vicino Bologna.
“Non le ho ancora risposto – dice Mimmo – mentre armeggia vicino allo stereo per ascoltare la musica di Vasco Rossi, uno dei suoi idoli, “conto di inviarle una e-mail”.
Sotto l’albero di Natale, però, Mimmo vorrebbe trovare un regalo particolare e affida a Visto la missione di consegnare il messaggio. Destinatario Gianluigi Buffon, il portierone della Juventus.
“Il mio sogno sarebbe quello di conoscerlo – confida il ragazzo, mentre ci conduce nella sua cameretta che ha davvero poco da invidiare ad uno Juve club.
“Per ora – continua a parlare accendendo il computer – mi accontento di questo”. E mostra sullo schermo un autografo del numero uno juventino, scaricato da internet insieme ad un centinaio di foto di altri calciatori della Vecchia Signora, prelevate da vari siti del tifo bianconero.
“Juventus e informatica sono state sempre le sue due passioni”, interviene il padre Giovanni, 45 anni, operaio edile a Bologna.
Su quel treno Mimmo c’era salito proprio diretto nel capoluogo emiliano insieme alla mamma Annunziata, bracciante agricola, e alla fidanzata di suo fratello Pasquale.
Il 3 dicembre per la famiglia Zecca avrebbe dovuto essere un giorno di gran festa: il giuramento di Pasquale, militare volontario nell’esercito, l’anniversario di matrimonio dei due genitori (il ventunesimo), il festeggiamento dei sedici anni di Mimmo, compiuti solo qualche giorno prima.
Il destino, però, si è messo di traverso, aiutato dalla negligenza umana (l’inchiesta in corso ha appurato che alla guida del convoglio merci piombato addosso all’Espresso 910 Reggio Calabria – Torino c’era un aspirante macchinista) e dalla vergogna di un binario che da decenni corre solitario, nonostante le proteste, a collegare la punta d’Italia alle regioni adriatiche. E così Mimmo, nel giorno che avrebbe dovuto essere di gioia, si è ritrovato col dolore, non solo fisico, di una amputazione, in una sala operatoria dell’ospedale “Santissima Annunziata” di Taranto. Dove i medici non hanno potuto riattaccare il braccio maciullato, recuperato nel buio nei momenti concitati dei primi soccorsi, proprio dalla mamma. Lei l’ha visto volare fuori dal finestrino, lei lo ha riconosciuto grazie al colore del maglione che il ragazzo indossava, lei lo ha indicato ad un soccorritore che ha prelevato l’arto distaccatosi. Gridando con quanta più voce aveva in corpo, nonostante le contusioni alla testa e al collo che l’incidente le avevano provocato.
“La vita continua” – sorride amaro Giovanni Zecca – che per lavorare ha dovuto trasferirsi da quattro anni a Bologna e ogni settimana torna in treno nel suo paese -, “per ora Mimmo non sta andando a scuola, l’anno prossimo si vedrà”.
Il ragazzo frequenta il terzo anno di un istituto tecnico ad indirizzo informatico in un paese vicino Lizzano. Dal letto d’ospedale aveva detto di voler abbandonare la scuola. Perdere il braccio sinistro, per lui che è nato mancino, gli era sembrata l’ulteriore beffa di un destino cinico.
“Tornare a casa, ritrovare le sue cose, lo ha certamente aiutato – dice la signora Zecca.
Mimmo, dal canto suo, insiste. Vuole essere certo della promessa: “Davvero proverete a farmi avere l’autografo del mitico Buffon?”.
A sedici anni un incidente può anche privarti di un braccio. Certo,  non del diritto di vivere e sognare.

Morire di fame a sedici mesi (VISTO, gennaio 2005)

di Antonio Murzio
BARI, gennaio 2005 – L’unica foto esistente di Eleonora, sedici mesi appena, morta di fame e stenti a Bari nel 2005, è sul display del telefono cellulare di un ragazzo che opera in una associazione di volontariato, e risale a qualche mese fa.
L’unica immagine che rimarrà di Eleonora è invece impressa, e lo sarà per sempre – nella mente di chi ha cercato di prestare i primi soccorsi, come Pasquale Fittipaldi, infermiere e vicino di casa, che inutilmente ha tentato di rianimarla. L’immagine è quella un corpicino pelle e ossa, di cinque chili appena, poco più del peso di un neonato e metà di quello di un qualsiasi bambino di un anno e mezzo, al quale da almeno due mesi nessuno si preoccupava di dare da mangiare né da bere. “Una immagine che nella mia vita pensavo avrei visto solo nei documentari sul campo di concentramento di Auschwitz”, ha detto il pm Emanuele De Maria, che ha disposto l’arresto per la madre della bambina e il suo convivente.
Nel cubicolo di cemento delle case popolari di Enziteto, quartiere a nord di Bari, Francesca Scannicchio, 23 anni, e Armando Morisco, 43 anni, due vite allo sbando tra droga, prostituzione, qualche rapina e alcuni anni in carcere, avevano occupato abusivamente dei locali a pianterreno. In quelle stanze, dove l’unico segno della presenza di bambini è un fasciatoio all’ingresso e un pezzo di triciclo in plastica, su due materassi sfondati e luridi, senza lenzuola e senza coperte, dormivano sei persone. Due adulti e quattro bambini. “Il sacrificio di Eleonora – commenta una signora – almeno è servito a salvare altre vite”.
Il fratellino e la sorellina maggiore della piccola hanno sul collo e sul viso segni di graffi. Insieme all’altra sorellina, di quattro mesi appena, prima di essere avviati verso una comunità protetta, sono rimasti un giorno sotto osservazione presso lo stesso ospedale dove la corsa disperata dell’ambulanza che trasportava Eleonora si era conclusa a sirene spente. Fisicamente stanno bene, alla psicologa che li ha assistiti, i più grandicelli, di quattro e due anni, hanno detto che “è più bello stare con la dottoressa che con la mamma”. Tutti sono arrivati senza vestiti, “il maschietto – racconta l’ispettore di polizia che comandava la pattuglia intervenuta sul posto quel venerdì “aveva la gomma delle scarpe attaccata ai piedi, perché non aveva calze”.
Perché, se gli altri bambini ricevevano regolarmente da mangiare, Eleonora è stata lasciata morire di fame e sete, e sul suo corpo il medico che ha eseguito l’autopsia ha trovato tracce di vecchie fratture al braccio mai curate?
La spiegazione, se può esistere una spiegazione a quello che è accaduto, è in una sorta di selezione praticata dai due mostri di Enziteto: “Tra i quattro bambini, Eleonora era l’unica a non avere un padre certo. Era il frutto di un rapporto occasionale della madre con un cliente in un periodo in cui si prostituiva a Bologna. E anche se legalmente riconosciuta dal padre dei primi due bambini ed ex marito della donna, forse nella mente contorta dei due conviventi la piccola non poteva accampare gli stessi diritti degli altri. Soprattutto dellultima bambina, quella di quattro mesi, unica figlia della coppia ora in carcere”, dice Leopoldo Testa, funzionario della Squadra Mobile.
Ma Eleonora, nei pochi mesi del suo passaggio sulla terra, non ha goduto di nessun diritto. Le spettava quello di vivere. Non glielo hanno concesso la mamma e il suo uomo, che uscendo per andare a fare il parcheggiatore abusivo alla stazione centrale di Bari, chiudeva i bambini in casa, serrando la porta con un lucchetto la cui chiave pendeva beffardamente e sinistramente da un ciuccio.
Le spettava il diritto di essere difesa. La superficialità degli assistenti sociali, che avrebbero potuto chiedere l’intervento delle forze dell’ordine per entrare in casa dopo che per tre volte la donna si era rifiutata di aprire la porta fingendo di non esserci, le ha negato anche quello.
Aveva il diritto di essere aiutata. Ma accanto alla sua abitazione gli avventori di una enoteca hanno tranquillamente continuato a bere birra, così come le vicine a parlarsi dai ballatoi, in un dialetto che già per gente del posto a volte diventa difficile da comprendere. Allora il suo pianto sembrava non riguardarli, in ossequio alla legge dell’omertà che regna su un quartiere dove per polizia e carabinieri è impossibile arrivare di sorpresa. Ora, dopo la tragedia, ognuno cerca di raccontare il suo pezzo di verità aspirando al ruolo di giustiziere. Sarebbe bastato che qualcuno avesse svolto quello di cittadino. Eleonora aveva il diritto, come tanti abitanti perbene di Enziteto, di far parte di una città. Invece, uno scriteriato piano regolatore li ha relegati a vivere in una zona senza servizi che con il resto di Bari non ha nulla da spartire. Tranne in periodi elettorali: di qui partì simbolicamente nella primavera scorsa “l’onda Emiliano”, la campagna dell’attuale sindaco Michele Emiliano, ex magistrato antimafia. Qui, in un venerdì di gennaio, lo tsunami della vergogna ha fatto in modo che una bambina di sedici mesi morisse di fame e stenti. A Bari, Italia, nel 2005.

E’ tornato il mostro del Circeo

di Antonio Murzio

Campobasso, maggio – “Ho fallito”, continua a ripetere con gli occhi lucidi Dario Saccomanni, mentre si aggira nelle stanze deserte dell’associazione “Città futura”. Qui, al quarto piano di una vecchia palazzina che si affaccia sul carcere, lavorava Angelo Izzo, uno dei massacratori del Circeo, accusato ora del feroce duplice omicidio di Maria Carmela Limucciano e Valentina Maiorano, moglie e figlia di un pentito della mafia pugliese.
Dopo che il giudice di sorveglianza di Palermo aveva accolto la sua istanza, ogni mattina Izzo lasciava la sua cella, attraversava la strada che separa il penitenziario dalla sede dell’associazione e prendeva il suo posto di responsabile dello sportello di primo ascolto.
“I suoi interlocutori erano tutti i disagiati sociali che si rivolgono alla nostra associazione per avere un aiuto”, spiega Saccomanni, che nella vita privata è un pastore della Chiesa evangelica.
“Chi meglio di una persona che aveva vissuto l’esperienza di Angelo, poteva rappresentare l’esempio della possibilità di rifarsi un’esistenza?”, dice ancora Saccomanni che definisce Izzo, “una persona splendida, gentile, cordiale e disponibile”.
E’ nella sede di “Città futura” che Izzo ha conosciuto i giovani molisani che lo hanno aiutato ad occultare i cadaveri delle due donne in una fossa scavata dinanzi ad una villetta di campagna, poco fuori Campobasso.
Luca Palaia, un passato da tossicodipendente, svolgeva attività di volontariato a “Città futura” e divideva l’ufficio con Izzo; Guido Palladino, ventiseienne, è il titolare di una piccola impresa di software, la Unidos, con sede, fino a qualche tempo, nella stessa palazzina che ospita l’associazione.
Spesso Izzo scendeva fino al primo piano, nella redazione di un mensile locale. “Insieme si andava al bar – spiega il direttore Vincenzo Cimmino – e con Angelo si parlava di tutto. Non ho mai sentito uscire dalla sua bocca una volgarità. Era una persona affabile, disponibile, gioviale. Conoscevo benissimo la sua storia e l’unica “contromisura” da me adottata era quella di tenerlo il più possibile lontano dalla nostra redazione, composta in gran parte da donne. Ricordo quello che mi disse una volta: “Io dentro mi sento ancora un ragazzo, come vuoi che mi piacciano le donne della mia età?”.
Poi Cimmino mostra due lettere consegnategli a mano da Izzo qualche giorno prima del suo arresto per il duplice omicidio. Nella prima il boia del Circeo affronta una questione d’interesse locale, nella seconda critica il sistema penitenziario italiano e propone di aprire “le nostre frontiere, accogliendo fraternamente i nostri migranti”, perché “ci porteranno solo benessere, vivacità, apertura mentale e tutti i colori del mondo”.
Il testo integrale delle due lettere, scritte con grafìa minuscola e infantile su fogli di quaderno di color rosa, sarà pubblicato integralmente sul periodico molisano a fine mese. Ma le parole scritte da Izzo non sembrano contenere, secondo gli inquirenti, messaggi cifrati che possano spiegare il nuovo terribile omicidio.
Maria Carmela Limucciano e Valentina Maiorano, moglie e figlio di un esponente della Sacra Corona Unita, la cosiddetta quarta mafia, dopo il pentimento del capofamiglia, vivevano a Gambatesa, paese di milleottocento abitanti al confine tra Molise e Puglia.
Abitavano in una modestissima abitazione dalla quale avevano recentemente subito lo sfratto. Erano in cerca di una nuova casa, e la cercavano possibilmente a Campobasso. Per questo si erano rivolte all’associazione dove Izzo lavorava.
Izzo, che in passato aveva diviso la cella con Giovanni Maiorano, marito e padre delle vittime, era stato anche visto nel febbraio scorso a Gambatesa. “Una volta”, racconta una compagna di scuola, “Valentina, appena lo vide, si rifugiò in casa”.
Un altro episodio inquietante viene raccontato dai vicini di casa: “Rientrando a casa, madre e figlia trovarono la porta d’ingresso forzata”.
La moglie del boss pugliese non disponeva di un’auto. Per andare a Campobasso utilizzava l’autobus. L’ultima corsa, quella senza ritorno, la madre e Valentina l’hanno fatta mercoledì 27 aprile. I loro ultimi momenti di vita li ha raccontati in lacrime davanti ai giudici Luca Palaia: “Mentre io tenevo bloccata la madre sotto la minaccia della pistola, Angelo si è chiuso in stanza con la ragazzina. E’ uscito dopo circa mezz’ora e Valentina era già morta. Poi Izzo ha ucciso la madre soffocandola con un sacchetto di plastica. Abbiamo poi infilato i due cadaveri in sacchi di immondizia e poi le abbiamo seppellite nella buca scavata nella villa di Palladino”. “Quella buca è stata ricoperta poi con la calce per evitare che il fetore della decomposizione potesse attirare animali o destare sospetti”, ha proseguito Palaia, che nei giorni precedenti all’omicidio aveva acquistato  sacchi di calce in un negozio di Campobasso.
Le ipotesi investigative sono due: ma mentre perde quota l’ipotesi della violenza carnale (esclusa anche dall’autopsia sul corpo di Valentina), si rafforza l’ipotesi che Izzo, colpendo il pentito, avrebbe ottenuto dalla Sacra Corona l’aiuto per una nuova fuga dal carcere (in passato era già evaso). Un documento con una sua foto recente e una falsa identità era già pronto.

La vita per un amico (Visto, maggio 2005)

di Antonio Murzio

Policoro (Matera), maggio – Antonella Tufarelli è fuori dall’ospedale che aspetta di sapere se il suo amico Gianfranco Prillo, paraplegico dopo un incidente durante il suo viaggio di nozze in Messico nel quale perse la giovanissima moglie rumena, ce la farà.
Francesco Mitidieri, 23 anni, il fidanzato di Antonella, è morto per difendere l’amico disabile. “Brutti brutti”, come gli amici chiamavano Francesco, se n’è andato un sabato notte. Il suo cuore grande ha cessato di battere per una coltellata. Una sola, che gli ha penetrato il cuore, nel corso di una rissa scoppiata dinanzi al pub “Cherokee”. Cominciata per i pesanti apprezzamenti rivolti da tre giovani calabresi alle ragazze della sua comitiva. Un crescendo di insulti, poi Gianfranco Prillo che si ritrova scaraventato a terra dalla sua carrozzina. Colpito a calci e pugni dai tre ragazzi di Cassano allo Jonio, parte di quello sciame migrante che popola le notti del sabato del litorale jonico dalla Calabria alla Puglia.
Mentre la rissa è in corso Francesco, un diploma da ragioniere in tasca e tanti lavori saltuari, si accascia. Solo allora gli amici che sono con lui si accorgono del rivolo di sangue sul petto. La macchina di Christian, un amico a cui aveva fatto da testimone di nozze il 23 aprile scorso, corre verso l’ospedale. Ma gli occhi di Francesco si chiudono pochi minuti dopo l’arrivo al Pronto soccorso.
“Lo supplicavo di non addormentarsi” –  racconta Antonella, 24 anni, insieme a Francesco da soli due mesi “lui mi fissava e mi riempiva di baci”. La ragazza continua il suo racconto tra le lacrime: “Gli chiedevo di farmi capire se riusciva a sentirmi, mi ha fatto cenno di sì. Non riusciva più a parlare. Appena arrivati all’ospedale, ha chiuso gli occhi mentre mi dava un ultimo bacio. E’ morto così.” Poi il pianto disperato nell’abbraccio ad un’amica, i singhiozzi, la litania del dolore: “L’amore della mia vita, l’amore della mia vita…”.
Antonella, che studia al Conservatorio di Matera, ricorda con la dolcezza tipica del rimpianto il fidanzato ucciso: “Avevamo fatto tanti progetti, l’altro giorno eravamo stati insieme al mare. Lui amava molto pescare e lì, sulla spiaggia, avevamo fantasticato su quello che avrebbe potuto essere la nostra storia.”
Mentre racconta, viene raggiunta da Tiziana Leone, ventisei anni. Da due è insieme a Gianfranco che, il giorno prima, è stato sottoposto ad un delicato intervento chirurgico d’urgenza. Una emorragia interna lo stava dilaniando senza che lui potesse accorgersene. Dopo l’incidente in Messico, infatti, la metà inferiore del suo corpo ha completamente perso sensibilità. Non ha sentito la lama del coltello penetrargli la carne. E’ stato salvato dalla prontezza di spirito di un ufficiale dei carabinieri.
Il tenente Antonio Guglielmi lo ha visto sbiancare in volto mentre lo interrogavano in caserma come testimone. “Gli ho chiesto se si sentisse bene – racconta Guglielmi. “L’abbiamo aiutato a slacciare la camicia e abbiamo visto le sue panciere, indossate per evitare le piaghe della postura cui è costretto, inzuppate di sangue. Lo abbiamo accompagnato immediatamente in ospedale”.

Il tenente Gugliemi durante l’intervista (foto Paolo Altamura)

Per Guglielmi non è stato facile tenere a bada con due soli uomini i circa duecento avventori del pub che nella notte avevano scatenato una vera e propria caccia all’uomo: “I tre ragazzi ora in carcere con l’accusa di concorso in omicidio avevano buttato via il coltello, trovando riparo nella campagna alle spalle del pub”, racconta l’ufficiale. “Quando li abbiamo presi, ho dovuto affrontare i ragazzi del posto intimando persino di sparare in alto, mentre inferociti mi dicevano: “Tenente, però così non si fa…”.
L’arma del delitto, con molta probabilità un coltello a serramanico, non è stato ancora ritrovato.
“Chi ha visto qualcosa, parli!”, lancia ora un appello Antonella. “Non posso credere che tra tante persone che erano lì in quel momento nessuno abbia visto nulla”, dice la ragazza.
Gianfranco, intanto, nel suo letto d’ospedale, combatte un’altra delle dure battaglie a cui la sua giovane esistenza l’ha sottoposto.
“E’ molto frustrato”, dice Tiziana, la sua fidanzata, alla quale Francesco, il ragazzo morto, in uno dei suoi gesti d’altruismo, aveva ceduto il posto da ragioniere in una azienda. “Quasi si sente responsabile, per la sua condizione, della morte del suo più caro amico”, confida.
“Brutti brutti”, Gianfranco, Christian: amici inseparabili che l’avvocato Livia Lauria, sorella maggiore di Christian, ricorda sempre insieme sin da bambini.
“Gianfranco finalmente si stava riprendendo, aveva cominciato a dipingere e vendere quadri e a fare piccoli manufatti in legno – racconta l’avvocato Lauria – e ora gli è arrivata quest’altra tremenda tegola sulla testa”.
“Quella maledetta sera Francesco era rimasto a casa a festeggiare i 90 anni della nonna. Poi un sms di mio fratello Chirstian sul suo cellulare: “Siamo da Puzzi”, il nome col quale a Policoro tutti conoscono il locale”, dice la legale che si trova ora a difendere un quarto ragazzo del luogo, arrestato in seguito alla rissa.
Inviando quell’sms gli amici non potevano immaginare di invitare “Brutti brutti” all’appuntamento con una lama di coltello. Che avrebbe impedito al suo cuore grande di continuare a battere, soprattutto per loro.

L’omicidio di Giusy Potenza (Visto, 2005)

di Antonio Murzio

Il giorno in cui il corpo di Giusy, quindici anni, subiva l’ultimo affronto della sua breve e sfortunata esistenza sul tavolo delle autopsie, Carlo Potenza, suo padre, parlava ancora del futuro della sua “bambina”. “Avrei voluto che continuasse gli studi, a differenza di sua sorella Michela che ha scelto di imparare il mestiere di parrucchiera”, diceva. Ignorava che a massacrare sua figlia, su una scogliera alle spalle dello stabilimento dimesso dell’Enichem, fosse stato suo cugino, che aveva una relazione con la figlia minorenne. “Non cerco vendetta, voglio solo giustizia”, aveva aggiunto Carlo Potenza. E al dirigente del commissariato di Manfredonia che coordinava le indagini aveva chiesto un “regalo di Natale”: la cattura dell’assassino della figlia.
Giovanni Potenza, 27 anni, pescatore, sposato e padre di due bambini, fu prelevato dalla polizia in mare aperto, sul peschereccio dove era imbarcato, a sette miglia dal porto molisano di Termoli. Era l’antivigilia di Natale. Messo alle strette dagli investigatori, crollò quasi subito: “Da due mesi avevo una relazione con Giusy. Volevo interromperla ma lei ha minacciato di raccontare tutto a mia moglie. Non ci ho visto più e l’ho colpita”. La furia di quell’omicidio rimase impresso sul volto orrendamente deturpato di Giusy. Il grosso masso con cui il suo amante l’aveva colpito le aveva lasciato un solo dente. Il viso era gonfio, con i grumi di sangue all’altezza della bocca. Gli occhi semiaperti erano quelli terrorizzati e increduli di una ragazzina che ha gli ultimi secondi di vita per scoprire che l’uomo che ti ha appena amata, ora ti sta uccidendo. Giusy era distesa a terra, indossava una maglietta gialla, aveva i pantaloni abbassati. Le braccia erano distese all’altezza della testa; le mani, con le palme rivolte verso l’alto, semiaperte. A rivederle oggi, alla luce degli sviluppi che la storia di Giusy poi avrebbe avuto, in quelle immagini sembra che solo la morte abbia restituito all’adolescente ciò la vita aveva cominciato a negarle. La sua innocenza, innanzitutto. Quella a cui si è sempre disperatamente appellato Carlo Potenza quando le voci su giri pericolosi in cui la figlia era finita hanno dapprima cominciato a circolare in paese e poi trovato riscontro nell’arresto di due giovani donne accusate di aver indotto Giusy a prostituirsi. Il tranquillo pescatore, che “non cercava vendetta ma voleva giustizia”, che dopo l’omicidio della figlia non è più andato per mare, e che secondo alcuni avrebbe pure cominciato a darsi all’alcol, ha giorno dopo giorno alimentato la sua sete di vendetta. E in un pomeriggio afoso di fine maggio, la sua mente provata ha pensato che un coltello conficcato nell’addome del padre di una delle due presunte sfruttatrici di Giusy potesse mettere fine alle sue pene. Ora è rinchiuso nel carcere di Foggia con l’accusa di tentato omicidio, lo stesso in cui il cugino assassino è dal giorno della confessione. Scelta inopportuna, anche secondo il dirigente del commissariato di Manfredonia, Antonio Lauriola, che dice “di averlo fatto presente al pubblico ministero”.
Lauriola è l’investigatore che ha risolto il delitto di Giusy in poco più di un mese e ha scoperto il giro “sporco” in cui la ragazza era finita, disponendo l’arresto di Filomena Rita Mangini (detta Floriana) 19 anni, appartenente all’omonima famiglia malavitosa e figlia del 41enne Pasquale, il pluripregiudicato per reati di droga colpito da Carlo Potenza. Assieme alla Mangini, che è incinta per la seconda volta, dopo aver avuto il primo figlio cinque anni fa da un ventenne poi morto ammazzato, è stata arrestata Rosalba Santoro, 24 anni. “Figlia di persone per bene”, tiene a precisare Lauriola che, nella sua casa di San Giovanni Rotondo, ricostruisce per “Visto” l’intera vicenda di Giusy, “sgombrando una volta per tutte il campo dalle fantasiose ipotesi del branco, delle messe sataniche o di una terza persona coinvolta nel delitto”.
Per il poliziotto, in tutta la storia di Giusy “c’è solo un buco di mezz’ora, quello tra quando la ragazza esce dalla cartoleria Bernini dove è andata a comprare i cd vuoti, incrocia all’uscita dal negozio un amico al quale dice di avere un appuntamento con il cugino (“lo zio”, invece secondo le testimonianze di un commesso del negozio che sente la conversazione) e si avvicina a una Punto di colore verde, ferma nella stradina che fiancheggia la cartoleria. In quell’auto, secondo le inquirenti, c’erano la Mangini e la Santoro. Sul sedile posteriore sedeva un uomo. Sono le 17,15. Le due sospettate, ora agli arresti domiciliari, negano con forza ma cè la testimonianza di un altro ragazzo che, poco prima, alle 17, ha visto la Punto verde e riconosciuto le due ragazze. Anche lui dice di aver visto un uomo seduto in macchina. E’ un amico di Giusy. Venti giorni prima ha incontrato la giovane studentessa dellistituto magistrale “Roncalli” e racconta a Lauriola: “Giusy era in abiti succinti e aveva freddo. Io sapevo che aveva cominciato a fare prestazioni sessuali dietro compenso e ho anche cercato di dissuaderla perché ero molto dispiaciuto”. Alle 17, 15 Giusy, uscendo dalla “Bernini”, si avvicina all’auto. Alle 17, 30 ha l’appuntamento con Giovanni Potenza dove arriva con mezz’ora di ritardo. “E l’ultima telefonata che risulta dai tabulati del suo cellulare – spiega Lauriola – è delle 17, 42. La chiama un amica. Poi il segnale si perde. La ragazza e l’amante si incontrano nei pressi dell’abitazione di Giusy. A bordo della Ford Focus di lui, si allontanano e giungono in riva al mare. Lì fanno l’amore per due volte, poi scoppia il litigio perché lui vuole interrompere la relazione, incominciata due mesi prima in occasione della festa patronale. Giusy, in preda alla rabbia, si allontana e al buio cade dalla scogliera. Giovanni Potenza va a recuperarla: Giusy è bagnata, è caduta in acqua, è dolorante. La riporta sulla scogliera servendosi di una scala naturale scavata nella roccia; poi, stanco, la poggia per terra. E’ in quel momento che la ragazza, secondo il racconto dell’omicida, minaccia di svelare tutto. Il Potenza è accecato dalla rabbia, prende il grosso sasso che è vicino alla ragazza e infierisce sulla povera Giusy”.
“La confessione di Giovanni Potenza” –  continua Lauriola “collimerà alla perfezione con i nostri riscontri e con quelli dell’autopsia sul corpo della ragazza. Soprattutto quando, parlando del secondo rapporto avuto con Giusy, Giovanni Potenza racconta di averlo fatto in maniera scomoda. Alcune striature sul corpo della vittima lo confermeranno”.
“Le piste battute da subito dopo l’omicidio – dice ancora Lauriola – sono state due: quella familiare e quella della prostituzione, avendo raccolto nel corso delle indagini elementi che indirizzavano verso questi due ambiti”.
Floriana Mangini e Rosalba Santoro, ora agli arresti domiciliari, continuano a negare di aver conosciuto Giusy. Solo la seconda dice di essere amica della sorella maggiore, Michela Potenza. Le smentisce la testimonianza di un “cliente” che a sua volta è stato denunciato per la minore età di Giusy,  con la quale ha ammesso di aver avuto rapporti a pagamento.
“Giusy – spiega Lauriola – illusa dal guadagno facile che poteva derivarne, in realtà si limitava a rapporti non completi con i clienti che le due le procuravano. Le tariffe, a seconda della prestazione, andavano dai dieci ai trenta euro. Soldi che utilizzava per il telefonino o per pagare la pizza al fidanzatino. Il ragazzo ha confermato che la ragazzina proprio negli ultimi due mesi aveva una disponibilità di denaro mai avuta prima”.
Quando queste notizie hanno cominciato a circolare, qualcosa deve essere scattato nella mente di Carlo. La famiglia Potenza non ha mai creduto alla versione degli inquirenti sulle modalità dell’omicidio e tantomeno crede che la “bambina” potesse essere arrivata a tanto. La sorella maggiore di Giusy, Michela, di diciotto anni, intanto, non parla. E’ l’unica persona che potrebbe aggiungere qualche tassello mancante per ricostruire il puzzle degli ultimi mesi di vita di Giusy.
Le famiglie Potenza e Mangini vivono a pochi isolati di distanza, nello stesso quartiere. A Monticchio, il clan Mangini spadroneggia. Il business principale è la droga. Il capofamiglia ferito dal padre di Giusy era uscito da poco dal carcere. Un figlio ventenne, Matteo, fu ucciso nel 2001 nello stesso luogo in cui era stato ammazzato Lorenzo Ferrandino, compagno dell’allora quattordicenne Floriana Mangini, che da lui aveva avuto il primo figlio.
La famiglia Potenza non aveva nulla a che fare con tutto questo. Ma è difficile rimanere incontaminati se hai quindici anni, vuoi tutto (il superfluo) e non puoi avere nulla. “Un mese e mezzo prima dell’omicidio – racconta il sindaco di Manfredonia Paolo Campo – Giusy era venuta con la mamma nel mio ufficio. La signora chiedeva un aiuto. Dopo la morte della ragazza abbiamo accelerato l’iter per il rilascio della licenza a Carlo Potenza che aveva messo su una bancarella al mercato settimanale dove vendeva pesce. E’ una brava persona, penso che abbia commesso una grande stupidaggine a colpire il Mangini”.
“Il dramma è ora delle due mogli”, continua Campo. La signora Grazia (Rignanese, moglie di Carlo, n.dr.), sembra in attesa di un altro figlio, e la giovanissima moglie di Giovanni Potenza, che si è trasferita a Modena con i due figli, dove la bambina più grande di sei anni continua a chiederle con insistenza del perché il papà non torna”.
“Ma non metteteci addosso alcun marchio” conclude l’avvocato Campo, al suo secondo mandato di sindaco: la storia di Giusy Potenza è accaduta a Manfredonia ma sarebbe potuta accadere in ogni altro posto. L’omicidio è maturato in un particolare contesto sociale, di disagio familiare.” E per dimostrare quanto facile sia instaurare rapporti con i manfredoniani mostra la foto con dedica di Roberto Vittori, l’astronauta italiano andato in orbita ad aprile scorso. Come promesso ai dirigenti della locale squadra di calcio, Vittori, che è romano, nello spazio avrebbe indossato la maglia del Manfredonia Calcio, quest’anno promosso in C1. Lo ha fatto in diretta televisiva in un collegamento col TG1. Tra le stelle che gli brillavano intorno forse c’era anche quella di una ragazza che dalla vita aveva avuto poco e preteso tutto. Troppo in fretta per i suoi quindici anni.

Padre Cipriano: 52 anni di lotta a Satana

San Severo (Foggia), giugno – Alla ripresa delle udienze per il processo ai cinque adepti delle “Bestie di Satana”, accusati degli omicidi di Mariangela Pezzotta, Chiara Marino e Fabio Tollis, Padre Cipriano De Meo non sarà sul banco dei testimoni. La presenza dell’ottantunenne frate cappuccino, che vive in un convento di San Severo, in provincia di Foggia, era stata richiesta dall’avvocato Guglielmo Gulotta, difensore di Eros Monterosso, uno dei cinque appartenenti alla setta. Ai giudici della Corte di Assise di Busto Arsizio, dove si svolge il processo, il legale aveva proposto il nome del frate, giustificando così la sua richiesta: «La lista testimoni del pubblico ministero trasuda diavolo da tutte le parti: ci vuole quindi un esorcista che rimetta le cose a posto». E aveva fatto il nome di padre Cipriano. Perché proprio lui? Perché padre Cipriano De Meo è l’esorcista italiano con la più lunga esperienza. Tutto cominciò il sette dicembre di cinquantadue anni fa. Mentre giocava a pallone con i suoi allievi nel convento in provincia di Avellino dove dirigeva il seminario, sentì bussare alla porta. Andò ad aprire e si trovò dinanzi tre persone, due uomini e una donna. Erano malmessi, non parlavano, la donna lo guardava in modo strano. Chiese ai tre se avessero bisogno di mangiare ma ancora nessuna risposta. Per rompere il loro lungo silenzio, chiese allora alla donna il suo nome. “Gridando con voce da maschio e saltando, lei gridò: “Sono il diavolo!”. Allora io le strinsi la mano e risposi: “Piacere, sono frate Cipriano”.Il cappuccino ricorda così il suo primo incontro con il demonio. Lo fa con Visto nel convento di San Severo, città dove ogni mercoledì combatte la sua battaglia contro il maligno nella piccola chiesa di San Matteo, poco lontano dal cimitero. A differenza di altri esorcisti, lui non ama apparire e l’unica volta che accettò di partecipare alcuni anni fa a “Domenica in”, in collegamento da Serracapriola, il piccolo comune del foggiano dove è nato, “il diavolo si manifestò con una interruzione di corrente”, spiega il frate, serio ma con il sorriso sulle labbra di chi ha un conto aperto con un nemico che è convinto, sempre e comunque, di poter battere.
Il suo coinvolgimento nel processo alle “Bestie di Satana” lo ha appreso dai telegiornali, ma nessun contatto è stato avviato, né prima né dopo, dall’avvocato che aveva richiesto la sua presenza in aula a Busto Arsizio.
Dove padre Cipriano, se glielo avessero chiesto ufficialmente, si sarebbe anche presentato. Ma non per praticare esorcismi. Solo per ribadire quello che dice nei numerosi incontri che ha con i giovani: “Attenzione a certi tipi di musica che spesso nascondono un inno a Satana, frequentate la chiesa e coltivate lo spirito pregando più spesso”. Perché cinquantadue anni di lotta ai demoni hanno reso padre De Meo anche molto pratico: “Una volta una signora mi ha detto che non credeva più nell’esistenza di Dio perché aveva perso il figlio in un incidente, ma quella è la vita, che ci vuoi fare?”, sospira mentre sorseggia un decaffeinato al bar.
Nel suo lungo apostolato di esorcista ne ha viste così tante che adesso alcune delle battaglie più lunghe e difficili contro il diavolo ha deciso di raccontarle in un libro: “Sono quattrocento pagine – anticipa a Visto – e dopo una prima parte teologica, c’è la parte annedotica”. Dove racconta di contadine analfabete possedute da Satana che, con disinvoltura, disquisiscono di filosofia e teologia, “da meritare 30 e lode”, dice, lui che la sua formazione da esorcista, da autodidatta, ha cominciato a costruirsela su testi del 1600.
Ma come si fa a distinguere i casi di persone possedute dal demonio da quelli di persone che hanno un disturbo che un bravo specialista in neuropsichiatria potrebbe curare? “Innanzitutto  – spiega padre Cipriano, che da cinque anni ha voluto un corso per sacerdoti aspiranti esorcisti proprio nel convento di cappuccini del suo paese natale “bisogna ricordare che per la Chiesa chi può praticare gli esorcismi sono i vescovi e persone da loro direttamente incaricate.” “In passato – prosegue il frate – quando c’era un caso dubbio si faceva l’esorcismo e gli si attribuiva anche valore terapeutico. Con il nuovo rituale (gli esorcismi sono regolamentati da un apposito rituale pubblicato dalla Curia romana e da alcuni articoli del codice di Diritto canonico, n.d.r.) c’è il divieto di fare l’esorcismo se non si è certi della presenza del demonio. Per cui mi servo di alcune preghiere per vedere se c’è l’azione del Maligno o meno. Comincio col segno della croce, l’imposizione delle mani sulla testa e una preghiera alla Madonna”.
Per uniformare le pratiche, padre Cipriano è stato anche tra i promotori di un’associazione internazionale di esorcisti: gli italiani sono i componenti più numerosi, perché all’estero, secondo il cappuccino, “la pastorale esorcistica non è molto curata”. Sarà per questo che al mercoledì mattino dinanzi alla chiesetta di San Matteo, già dalle prime ore dell’alba, spesso il tedesco o lo spagnolo si mescolano ai dialetti delle varie zone dell’Italia. Per essere ammessi al cospetto del frate esorcista, avverte un sito internet, è indispensabile prendere il numero. A mantenere l’ordine ci pensano una decina di amici fidati del monaco, gli stessi che poi pregano per il posseduto durante il rito.
Viene allora da chiedere al padre: Ma gli esorcismi che si vedono nei film rappresentano quel che realmente accade? Cipriano, sempre sorridendo, risponde: “Molto lontanamente, quel che accade in realtà è molto peggio, io conservo sotto spirito alcune delle cose che gli esorcizzati mi hanno vomitato addosso, non sono oggetti ma parti organiche estranee al corpo che le ha espulse”. E l’aggressività di un indemoniato? Il frate allora mostra al fotografo il rosario che gli pende dalla vita e spiega al cronista: “Sapessi quanto me ne hanno strappati, pensa che questo l’ho fatto realizzare apposta di un materiale il più resistente possibile”.
La cosa più difficile per un esorcista è l’individuazione del demone che si è impossessato della vittima: “I demoni sono tanti, tutti molto furbi. Cosa li infastidisce di più? Quando gli ricordo che anche loro sono strumenti attraverso i quali Dio conferma, con la loro sconfitta, la sua onnipotenza”.
A volte le battaglie di padre Cipriano durano anni. Per scacciare il demonio da una ragazza lucana ne ha impiegati dieci. La sua segreteria telefonica, intanto, è sempre attiva, mentre lui risponde al telefono solo a tarda sera. Ai suoi esorcismi è possibile assistere. Basta avere molta fede ma soprattutto “stomaco e coraggio”: “Per una suora una volta abbiamo dovuto chiamare un’ambulanza”, racconta il frate. Che alla domanda “Ma lei ha mai avuto paura?”, secco e deciso risponde: “No!”, mentre una luce quasi innaturale gli brilla negli occhi.
Antonio Murzio